Il sistema produttivo italiano ha dato ampia prova di innegabile resilienza, testimoniata anche in tempi di pandemia, in particolare nella manifattura, in momenti storici differenti.
Ma ci sono altre caratteristiche che potrebbero consentire alle imprese italiane di presentarsi all’appuntamento con l’Intelligenza Artificiale in migliori condizioni di quello che comunemente si pensa:
- la flessibilità organizzativa,
- la personalizzazione del prodotto,
- la centralità del B2B,
- la “co-opetition” tipica dei distretti industriali
- la crescente possibilità di accedere a tecnologie sofisticate come l’IA a costi ridotti.
Vediamole insieme.
Made in Italy e passaporto digitale dei prodotti: come le pmi possono prepararsi al 2030
La rivoluzione dell’IA nei modelli aziendali
L’impatto dell’intelligenza artificiale (IA) sulle imprese sarà sempre più rilevante nei prossimi anni: genererà una vera e propria rivoluzione dei modelli aziendali, sia nei processi interni, sia nei rapporti con clienti e fornitori.
Rispetto alle attività di backoffice, l’IA consente per esempio alle aziende di gestire meglio la liquidità, ottimizzare i rischi e cogliere i cambiamenti più prontamente che in passato. Nel caso della manifattura, la manutenzione predittiva, oggi una delle applicazioni IA di maggior successo in Italia, già permette di programmare più efficientemente revisioni fermi di impianti e macchinari. Nei rapporti con l’esterno, grazie all’IA le imprese potranno conoscere meglio e in anticipo i gusti dei propri clienti, differenziando conseguentemente il prodotto.
Spesso si osserva che di fronte alle tante potenzialità rappresentate dall’IA, l’Italia sia decisamente in ritardo, per numero di brevetti, aziende e startup leader nello sviluppo di tecnologie.
Un ritardo dovuto ai limitati investimenti pubblici e privati in R&S, alla insufficiente dimensione e alla parcellizzazione del trasferimento tecnologico, agli ostacoli ai processi di crescita di startup e PMI innovative, al saldo negativo dei flussi di capitale umano qualificato verso l’estero.
Secondo l’ultimo rapporto annuale dell’Osservatorio Artificial Intelligence della School of Management del Politecnico di Milano, presentato lo scorso febbraio, il giro d’affari annuale del mercato italiano, pur raddoppiato nell’ultimo biennio, raggiunge appena i 380 milioni di euro.
A fronte di importanti colli di bottiglia nell’accesso ai dati e soprattutto nella capacità umana e finanziaria di utilizzarli, le tecnologie AI sono al momento appannaggio, con troppe poche lodevoli eccezioni, delle imprese di dimensione maggiore. Se tra le grandi imprese del campione selezionato dal Politecnico, ben il 59% ha avviato almeno una progettualità IA, nel caso delle PMI ci si ferma al 6% (di cui il 4% semplici sperimentazioni e soltanto il 2% progetti a regime).
Eppure, accanto a tante criticità di sistema, ci sono alcuni fattori che potrebbero porre l’Italia in una posizione di vantaggio sull’IA, quantomeno nella sua adozione, rispetto a tanti altri Paesi. E in particolare le PMI vocate all’export potrebbero esserne le principali beneficiarie.
Il primo driver delle pmi per l’IA: la flessibilità organizzativa
La principale sfida per le aziende che vogliono adottare l’IA non è tanto tecnologica e tutto sommato neppure economica, neanche per quelle piccole e medie che costituiscono la gran parte dell’universo delle imprese italiane.
La prima difficoltà da affrontare è di carattere organizzativo. Secondo uno studio di Boston Consulting (2018), se le imprese vogliono trarre reali benefici dall’IA, devono puntare soprattutto su due elementi: velocità decisionale e team orizzontali rispetto alle diverse divisioni dell’azienda. Caratteristiche che si addicono poco, secondo i risultati della ricerca, al modello aziendale tedesco, criticato per la rigidità e l’eccessiva compartimentalizzazione.
Per cultura e dimensione, almeno sulla carta, le aziende italiane possono contare sul vantaggio competitivo di avere una maggiore flessibilità interna, in particolare le PMI, che dispongono di una struttura burocratica più snella. In questo senso sono teoricamente in grado di adottare un nuovo modello aziendale in tempi molto più rapidi e con modalità trasversali alle diverse funzioni.
La condizione è che, questioni finanziarie a parte, si superino due problemi rilevanti, specie per organizzazioni più piccole: competenze digitali quantomeno di base del top management e procedure interne adeguate ad assicurare sia un processo top-down che uno bottom-up di execution.
Il secondo driver delle pmi: la personalizzazione del prodotto
Una parte importante del vantaggio competitivo sviluppato da molte imprese italiane, specie (ma non solo) tra quelle operanti nei beni della casa e della persona, è stato negli ultimi quarant’anni quello di rispondere in maniera efficace a una crescente domanda di varietà.
Non essendo in grado di competere sulle produzioni di massa, che richiedevano un volume di investimenti e una scala produttiva nonché, a valle, un’organizzazione distributiva e di marketing fuori dalla portata della stragrande maggioranza delle imprese, per avere successo la tipica azienda italiana si è perfezionata sulle cosiddette «economie di gamma». Ossia su numerose e sofisticate variazioni di uno stesso prodotto o di una base ristretta di beni.
Con l’aiuto della tecnologia, che abbatterà sempre di più i costi di sviluppo, è prevedibile che si possa assistere a una sempre maggiore differenziazione della qualità del prodotto a prezzi inferiori, dunque allargando il numero dei potenziali acquirenti di beni personalizzati.
Naturalmente, le nuove tecnologie potrebbero anche rendere più facile ad aziende non italiane differenziare il proprio prodotto. Tuttavia, escludendo che le macchine possano sostituirsi interamente alle persone, è difficile che questo vantaggio possa dissiparsi, almeno nel breve periodo.
Il terzo driver: la centralità del B2B
Quando pensiamo alle possibili applicazioni dell’IA, ci vengono in mente soprattutto quelle rivolte ai consumatori. O tutt’al più ai pazienti (nella sanità) o ai cittadini (servizi pubblici). Ma in queste aree di maggior contatto con le persone, si nascondono anche le principali insidie, legate ad esempio alla tutela dei dati personali.
È anche questo uno dei motivi per i quali, secondo alcune stime (McKinsey Global Institute, 2018), i due terzi dei benefici economici dell’IA saranno fruiti nel canale B2B, dove si posiziona la maggioranza delle imprese italiane, soprattutto perché si richiedono minori investimenti sia nella R&S a monte sia nella distribuzione commerciale e nel marketing a valle.
Dunque, ancora una volta un fattore di debolezza iniziale potrebbe trasformarsi in un’opportunità di intercettare al meglio la rivoluzione incombente.
Il quarto driver: la co-opetition tipica del distretto industriale
Sempre di più l’innovazione viene sviluppata in un contesto di «co-opetition», cioè un misto di cooperazione e concorrenza (in inglese competition). Le imprese si fanno concorrenza tra loro ma allo stesso tempo collaborano rispetto ad alcuni obiettivi comuni.
Pur considerando le profonde differenze tra i distretti industriali, la forma più tipica di collaborazione nel modello italiano, e gli ecosistemi dell’innovazione nei quali vengono sviluppate le tecnologie IA, la collaborazione tra aziende anche in competizione tra loro è nel DNA del sistema produttivo nazionale, più che in altre economie. Sempre che si sappiano superare individualismi ormai fuori dalla storia e da una visione di lungo termine.
Il quinto driver: costi di accesso al tech alla portata
A determinare l’accelerazione verso l’IA di questo ultimo decennio, dopo le molte false partenze e delusioni degli ultimi sessant’anni, sono stati due fattori in particolare: l’aumento esponenziale della capacità di calcolo dei computer e la possibilità di disporre di enormi quantità di dati. Elementi che hanno un risvolto non solo tecnologico ma anche, e per certi versi soprattutto, economico.
Il fatto che la stessa potenza di calcolo contenuta venti anni fa in un enorme super-computer sia oggi racchiusa in un oggetto della grandezza di uno smartphone ha l’evidente risvolto nella differenza del costo necessario ad acquisirla e a gestirla. Stessa cosa per quanto riguarda i dati. La disponibilità di maggiori quantità di informazioni è andata di pari passo con l’abbattimento dei loro costi di produzione, grazie alla diminuzione del prezzo dei sensori e alla digitalizzazione dei processi.
Naturalmente, la radicale diminuzione dei costi di accesso non annulla la differenza tra le imprese. Alcune, grazie ai budget di cui possono disporre, continueranno ad avere risorse enormi da investire, per esempio nei super-computer. Sono tuttavia relativamente poche le aziende che hanno non solo la scala ma anche queste necessità. La stragrande maggioranza può fare moltissimo con poco. Grazie anche alla flessibilità del cloud computing, che oggi appare sempre di più come la principale porta d’ingresso per i tool IA.
Gli impatti dell’IA sull’export
L’IA può avere diversi impatti positivi lungo la export value chain delle aziende diventando un vantaggio competitivo in alcune fasi e per specifici settori. In ordine temporale nel processo di internazionalizzazione:
Analisi di mercato
Le aziende scelgono i mercati target in funzione di informazioni che riguardano la domanda dei beni, la concorrenza, i canali ed il contesto geopolitico. Stiamo parlando di una mole importante di informazioni, spesso disaggregate (es i siti della concorrenza).
L’IA può riuscire a dare una visione di sintesi utile nel supportare il processo decisionale, dove può anche suggerire eventuali Paesi Target. In questa direzione ci sono già alcuni esempi interessanti in Italia, in particolare Matchplat che offre ricerche di mercato basate sull’IA. Matchplat da un lato utilizza un database di oltre 400 milioni di aziende in 196 Paesi e dall’altro analizza in automatico la presenza on line dei competitors;
Strategia di mercato
Dopo aver individuato i paesi target l’azienda sceglie la strategia di ingresso. A seconda del settore, B2C o B2B, ci sono diverse alternative sia offline (es. distributori, agenti, venditori) che online (es. eCommerce), dirette o indirette e più o meno lunghe (si va dal venditore al dettagliante, passando attraverso la GDO).
Le scelte sono sempre complesse, anche perché una volta prese possono immobilizzare l’azienda almeno nel breve periodo. L’IA potrebbe aiutare, vedendo da un lato cosa fa la concorrenza e dall’altro incrociando le caratteristiche dell’azienda. Al momento il mercato non offre soluzioni ma non tarderanno ad arrivare;
Modello di business
Lo step successivo è rappresentato dall’adeguamento del modello di business, in particolare del sistema d’offerta, dove l’IA potrebbe essere utilizzata per tutte le leve del MKTG. Iniziano ad esserci realtà molto interessanti, in particolare Vedrai (nata sotto la pandemia), che utilizza l’IA su diversi verticali.
Una delle scelte che l’export manager deve prendere è quello di definire il giusto prezzo. Premoneo (Gruppo Vedrai) sviluppa strategie di pricing considerando le caratteristiche dell’azienda ed il mercato. Nel B2B aspetto strategico nella scelta del cliente è l’affidabilità del prodotto. Offrire soluzioni (macchinari) con software che hanno la capacità di prevenire improvvisi malfunzionamenti o guasti non solo aumentano la soddisfazione ma anche la fidelizzazione. Fermai (sempre gruppo Vedrai) ha realizzato soluzioni che consentono di ottimizzare la strategia di manutenzione.
Export Business Plan
Rappresenta il documento di visione e sintesi del progetto di internazionalizzazione. Uno degli aspetti più delicati riguarda le stime di vendita nei vari mercati. Spesso il processo è bottom up, coinvolgendo la rete commerciale. L’IA può supportare l’export manager fornendo modelli forecasting utili non solo per prendere decisioni ma anche per confrontarli con le stime dei commerciali. La stessa Premoneo fornisce questi modelli con segmentazione della clientela.
Day by day/monitoraggio/fine tuning
La fase successiva è rappresentata da una doppia attività, da una parte il day by day con lo sviluppo commerciale, lavorando anche a contatto dell’azienda che si deve adeguare al progetto di internazionalizzazione, e dall’altra il monitoraggio dei risultati con eventuali azioni correttive laddove ci siano scostamenti rilevanti.
L’IA può supportare l’export manager in entrambe le fasi, anche se vediamo maggiore utilità nella seconda. Chatbot e virtual assistant potrebbero essere utilizzati nello sviluppo della relazione (o parte di essa) ma poco si concilia, almeno al momento, con la tipologia di relazione che l’azienda vuole sviluppare con il cliente all’estero.
Possono essere più interessanti sistemi di recommendation, anche se bisogna prestare attenzione alla customer experience. Mentre l’analisi approfondita dei numeri, utilizzando l’intelligent data processing, potrebbe portare ad individuare dei trend, che, se intercettati precocemente, possono spingere l’azienda a modificare la propria offerta anche prima della concorrenza e quindi generando un vantaggio competitivo.
Conclusioni
L’IA può rappresentare senz’altro una leva fondamentale per la competitività delle aziende italiane. Con un potenziale, in prospettiva, praticamente illimitato per quelle che esportano.
Ci sono, tuttavia, una serie di aspetti che richiedono tempo e costanza, al fine di un’adozione massiva, in particolare per le PMI. Con tre elementi decisivi: a livello micro, cambiamento organizzativo e rafforzamento delle competenze; a livello macro, impegno delle istituzioni e della rappresentanza di impresa a fornire tutto il supporto necessario per l’upgrade richiesto.
La condizione preliminare deve necessariamente essere la consapevolezza da parte del top management delle imprese di ogni dimensione e settore che il proprio futuro passi per l’IA e più in generale la trasformazione digitale.
Deve dunque esserci da parte dei vertici aziendali la volontà di mettere in discussione il modus operandi e la struttura stessa delle aziende, aprendosi al cambiamento ma al contempo gestendolo pro-attivamente. Perché questo processo possa funzionare, c’è bisogno di competenze di base da parte del top management, assistite chiaramente da specialisti interni o esterni all’impresa. In molti casi, nelle aziende familiari questo turnaround organizzativo dovrà accompagnarsi a un passaggio generazionale o quantomeno a una devoluzione sostanziale dei poteri agli esponenti più giovani e/o più qualificati della proprietà (o, in alternativa, a una managerializzazione più spinta del modello d’impresa).
Questo processo di enorme acquisizione di competenze, che deve partire dai vertici e diffondersi in tutto l’organigramma, non può essere demandato solo alle aziende ma deve essere supportato sia in termini di risorse finanziarie che umane, attraverso strutture specializzate, dall’azione congiunta delle istituzioni, a partire da quelle nazionali e regionali, e dei corpi intermedi, con in prima linea le associazioni datoriali. Solo se lo sforzo congiunto pubblico-privato sarà convergente, l’obiettivo potrà essere raggiunto. Rendendo l’export italiano più intelligente di prima e, possibilmente, anche di quello dei principali competitor del made in Italy.