La guerra dei dazi tra Usa e Cina ha visto gli analisti internazionali concentrarsi principalmente sugli aspetti economici del braccio di ferro in atto, con il riequilibrio della bilancia commerciale americana e le necessità di politica interna ad occupare il centro della scena.
Tali elementi hanno senz’altro giocato un ruolo significativo nella competizione tra Washington e Pechino ma la loro sovraesposizione mediatica ha impedito di scorgere la vera posta in palio dello scontro: il mantenimento della superiorità tecnologica americana per i decenni a venire.
Se infatti è stato possibile raggiungere un accordo sull’aumento delle importazioni cinesi dagli Stati Uniti (firmato lo scorso 15 gennaio dopo quasi due anni di rotture e successivi riavvicinamenti tra le parti), un’intesa sui temi caldi del 5G e degli aiuti di Stato alle imprese che si occupano di tecnologia appare molto più distante, diventando l’oggetto del prossimo round di trattative.
L’escalation di misure per frenare Pechino
La strategia di contenimento messa in atto dagli Usa ai danni di Huawei e ZTE, principali operatori cinesi del settore, ha dato vita nell’ultimo biennio a un’escalation di misure volte a frenare la corsa di Pechino, a dimostrazione di come Washington consideri i progressi del rivale una minaccia esiziale ai propri interessi.
Già nel maggio dello scorso anno, il colosso di Shenzen era stato inserito, insieme a 70 società affiliate, nella Bureau of Industry and Security Entity List, un elenco contenente le persone fisiche e giuridiche implicate in attività considerate contrarie alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti.
Dietro tale mossa si evidenziava la volontà americana di impedire alla controparte asiatica l’acquisizione di componenti e apparecchiature dalle società a stelle e strisce. Fortunatamente per Pechino, il Dipartimento del Commercio ha successivamente congelato il divieto per le aziende americane di fare affari con Huawei e le loro omologhe cinesi, permettendo dunque il proseguimento della collaborazione reciproca.
Un sospiro di sollievo, questo, per gli operatori del settore, a prescindere dalla nazionalità di appartenenza. I giganti della tecnologia hanno infatti sempre guardato con apprensione l’escalation in atto, preoccupati dalle ricadute economiche dovute alle tensioni tra i rispettivi governi. Nel marzo 2019, ad esempio, Alphabet INC., la società che controlla Google, si era vista costretta ad annunciare l’interruzione di ogni forma di collaborazione con il gruppo Huawei per quanto riguardava il trasferimento di hardware e software, ad eccezione di quelli coperti da licenze open source. La decisione di Washington di congelare (almeno momentaneamente) le restrizioni alle aziende cinesi pospone nel futuro, per quanto prossimo, l’acuirsi delle tensioni.
Lo scontro tecnologico di questi anni vede nella partnership tra pubblico e privato un elemento decisivo, come intuito dall’establishment dei due Paesi. Lo scorso 21 novembre il Presidente Donald Trump ha incontrato l’amministratore delegato della Apple, Tim Cook, invitandolo a mettersi a capofila della realizzazione del 5G negli Stati Uniti. Da parte cinese, oltre alla nota osmosi tra economia e potere politico, merita di essere sottolineato come Pechino abbia stabilito per gli enti pubblici la sostituzione di hardware e software di provenienza straniera (ed in particolare statunitense) entro il 2022. Nel prossimo triennio sarà avviato dunque il graduale subentro di dispositivi nazionali a quelli esteri, a riprova della dimensione strategica dello scontro.
L’Europa risponde in ordine sparso alle tensioni Usa-Cina
Le tensioni sino-americane vedono l’Europa rispondere in ordine sparso. Nonostante le pressioni di Washington per far assumere all’Ue una posizione più assertiva nei confronti di Huawei, nel marzo 2019 (uno dei momenti di maggior polarizzazione) Bruxelles ha deciso di non bandire Huawei dal continente, lasciando agli Stati membri la possibilità di impedirne o meno l’accesso per ragioni di sicurezza. L’UE ha dunque invitato i governi ad esaminare le potenziali criticità in termini di spionaggio e cyber security.
Un doppio allarme è giunto sul finire del 2019. A dicembre, infatti, i ministri europei delle telecomunicazioni hanno messo in guardia dall’affidare ad attori extracomunitari la realizzazione del 5G, auspicando una costante vigilanza affinché gli operatori esterni si adeguino alle normative comunitarie.
A distanza di pochi giorni, il Comitato Parlamentare per la Sicurezza della Repubblica (Copasir) ha richiamato l’esigenza di tutelare gli standard di sicurezza, anche a costo di escludere le cinesi Huawei e ZTE dalle infrastrutture digitali strategiche italiane (appello particolarmente significativo, ove si consideri che Roma era stata tra le capitali più entusiaste per il sodalizio con Pechino, a partire dalla firma del MoU nel marzo 2019, nel quale si prevedeva un incremento della collaborazione anche nel settore delle infrastrutture di TLC).
Nonostante le perplessità di diversi governi, il 29 gennaio 2020 la Commissione Europea ha approvato una serie di misure, ribattezzate “pacchetto sicurezza”, pensate per rispondere alle sfide del 5G. L’UE ha inoltre previsto una roadmap, chiedendo agli Stati membri di stilare un piano delle iniziative da intraprendere entro fine aprile e di redigere una relazione comune sullo stato di avanzamento in ogni Paese, da presentare entro fine giugno.
Una vasta eco, inoltre, ha avuto in questi giorni la decisione britannica di permettere alla Cina di realizzare parte dell’infrastruttura 5G nazionale, incorrendo nelle critiche di Washington. Certamente le limitazioni imposte da Londra (che prevedono un limite del 35% della rete periferica e impediscono agli operatori considerati pericolosi la realizzazione delle parti sensibili) riducono i rischi per la sicurezza ma accreditano le imprese cinesi agli occhi dell’opinione pubblica internazionale.
il ministro degli Affari europei Vincenzo Amendola, in conclusione della sua recente visita istituzionale a Washington, ha definito una “suggestione molto interessante” la riflessione dell’amministrazione Usa, lanciata dal Procuratore generale William Barr sulla possibilità da parte a parte di “un consorzio di aziende private americane e di Paesi alleati”, di acquistare quote di controllo in soggetti europei come Nokia ed Ericsson, che potrebbero costituirsi come alternative forti a Huawei per contrastare il predominio cinese sul mercato della rete 5G.
Suggestione che non ha registrato tuttavia il medesimo interesse da parte dei due vendor nordeuropei.
Il 2020 sarà cruciale per vedere quali scenari si delineeranno nella competizione internazionale sul 5G. Su questo tema la stessa Europa si troverà a giocare una partita vitale, per evitare di rimanere confinata in una sfera d’influenza esterna e diventare oggetto passivo dei giochi geopolitici sino-americani.