Questa è la settimana di Digital Venice. Una chance per il nostro Paese che può diventare una grande occasione solo se saremo capaci di coglierla. Come dice Neelie Kroes le parole economia e digitale non possono essere più divise. Non è un fatto di volontà è la storia stessa che adesso detta questa condizione.
Digital Venice è il primo evento della Presidenza Italiana del semestre Europeo e può essere un chiaro messaggio di svolta del Paese che non deve essere ignorato. Un’intuizione? Destino? Forse entrambe, fanno dire al nostro Presidente del Consiglio che solo in chiave digital l’Italia può essere protagonista in Europa, in tutti i settori, la via analogica – infatti – condanna a esclusione, immobilismo, distanza.
Cosa ci aspettiamo dunque da questo evento? Certamente una potente Venice Declaration che ispiri l’intero mandato italiano. Sei mesi in cui l’Italia deve essere protagonista e saper vestire questo ruolo in modo creativo, originale, innovativo come solo gli Italiani sanno fare.
Un nuovo modo, maturo e dirompente di concepire la digitalizzazione del paese che pervade tutti i settori dello sviluppo economico. Non è un capitolo del DEF, del PNR, o dell’Accordo di partenariato, bensì è trasversale in tutti i settori: è una condizione per l’evoluzione. Ci vuole una profondità e una consapevolezza del processo che metterà la parola fine ai facili slogan che ancora convincono troppa gente che nel digitale ha ambizioni e aspettative totalmente errate. Fine alle scorciatoie che deresponsabilizzano gli stakeholders e fine ai facili entusiasmi che sviano dal giusto e complesso percorso di riorganizzazione originando spesso nuove bolle.
Di esempi ne abbiamo, purtroppo, tanti. Vediamo solo le 5 priorità:
1. Basta pensare che sia sufficiente essere nativi digitali per avere le competenze digitali sufficienti per competere in Europa. Sarebbe come dire che basta insegnare a leggere per formare i giovani alle varie professioni. Che i nostri figli sappiano usare l’Ipad non li rende digitalmente competenti. Che i 13 enni di oggi passino le ore sul proprio smartphone a chattare, fare selfy e sharare musica non apre loro le porte del digital job. Non li rende più competitivi dei ragazzi asiatici che a scuola devono lavorare con sofisticati programmi informatici. La scuola deve essere formata alle eskills e deve, quindi a sua volta formare i propri discenti. E lo deve fare in fretta perché la nostra è una scuola anacronistica, purtroppo senza eccellenze, poiché anche le best practices sono il minimo che una scuola del 2014 dovrebbe offrire.
2. Non sono meno arretrate le nostre imprese. Secondo una ricerca del Boston Consulting Group, l’indice di intensità digitale colloca l’Italia al 27esimo posto OCSE. L’ISTAT calcola che il 17 per cento delle imprese non può definirsi digitalizzata: l’8,5 per cento non utilizza le email e quasi la metà non ha un sito internet aziendale. Il 72 per cento non ha un profilo aziendale nei social network, mentre negli USA tale percentuale è esattamente inversa e i socialmedia sono il modo più comune per monitorare il proprio brand.
È ora il momento di smetterla con sterili toppe a un sistema produttivo obsoleto. Responsabilizziamo i lavoratori al cambiamento e massimizziamo la digitalizzazione dei processi e dei prodotti. Questo è un gap pericoloso, un freno a mano tirato alla competitività del nostro tessuto produttivo formato in gran parte da piccole medie imprese che, se non si dimostrano in grado di cogliere la sfida digitale si condannano all’isolamento e quindi al fallimento.
3. Allo stesso modo, basta entusiasmi nuovisti verso le startup: linfa vitale per il nostro sistema produttivo che però non deve essere tradotto in un modo facile e infondato per aggirare il problema della disoccupazione giovanile. Scuole inadatte non preparano adeguatamente gli studenti al lavoro di oggi e lasciarli soli, spesso alla loro prima esperienza professionale, è diseducativo e mediamente fallimentare. Casi d’eccezione ci sono, ma spesso grazie alle guide attente che stanno alle loro spalle o al loro fianco. Puntiamo su queste guide, strutturiamole meglio e incentiviamo startup credibili, con esperienza e professionalità. In questa logica, basta con gli incentivi a fondo perduto: la parte pubblica dia il buono esempio e si impegni innanzitutto ad aprire i propri dati (open data by default) e lasci alla parte privata il compito di inventarsi soluzioni per utilizzarli.
4. Puntiamo sull’ecommerce, soluzioni strutturate non vetrine sparse nel mare del web. Impariamo a lavorare in rete, a collaborare, a fare sistema. Rafforziamo la logistica, la sicurezza dei pagamenti e impariamo a fare customer care! Estendiamo i nostri confini nazionali e consideriamoci cittadini europei, questo ci darà molta più forza. Si tratta di un mercato enorme che però non scarica nel nostro Paese i benefici. Nel 2013, l’ecommerce in Italia, ha avuto un giro di affari di 11 miliardi di euro (GlobalWebIndex), l’acquisto di prodotti online è aumentato del 2% di media rispetto allo scorso anno, con 1,5 milioni di utenti in più rispetto al 2012. Cittadini sempre più disposti a rivolgersi al canale web per i propri acquisti, ma imprese che non sono capaci di spostare il proprio canale di vendita on line, perché non hanno le competenze adeguate e non conoscono il mercato digitale.
5. Tra le cinque priorità non può non esserci l’infrastruttura. Abbiamo la rete più lenta d’Europa e operatori telco che non investono. Smettiamola con il dilemma prima l’uovo o la gallina, prima l’infrastruttura o i servizi e Rimediamo subito a questo gap con un imponente progetto Paese.
Iniziare subito e concretamente ad agire digitale sarà il modo migliore per onorare Digital Venice e accompagnare adeguatamente il suo manifesto.