Apple ha deciso di abbandonare i processori Intel e di iniziare una vera e propria rivoluzione che la porterà, nel giro di due anni, ad equipaggiare la sua intera offerta Macintosh con chip prodotti internamente, basati su architettura ARM e il cui nome provvisorio è Apple Silicon.
Si tratta, nella pratica, di utilizzare l’enorme esperienza accumulata negli anni di utilizzo di questi SOC (System On a Chip) su iPhone e iPad e fare in modo che questi chip possano funzionare senza troppi problemi anche su macchine di classe notebook o di classe desktop, solitamente equipaggiate con processori molto potenti, ma che consumano e scaldano di più.
A pensarci bene, quando Apple nel 2012 ha presentato l’iPad di terza generazione equipaggiato con il chip A5X dual-core con grafica quad-core e in grado di indirizzare correttamente il miglior retina display presente all’epoca sul mercato, molti hanno pensato che dentro quel pezzo di silicio ci fossero delle potenzialità enormi anche perché consumava e scaldava pochissimo, due caratteristiche molto apprezzate da chi ha bisogno di prestazioni, autonomia, leggerezza e non ama particolarmente il rumore delle ventole.
Il lock-in tecnologico che ha rallentato il cambiamento
Il cambio di architettura per i computer Apple, tuttavia, non è certo una novità, è già accaduto due volte in passato. La prima volta fu nel 1994 quando passò dai Motorola 68k ai nuovissimi Power PC, un enorme salto in avanti dal punto di vista delle prestazioni. La seconda volta fu nel 2005, quando Steve Jobs in persona, durante la WWDC, annunciò che, con una transizione di due anni, i computer Apple sarebbero passati dall’architettura Power PC a quella Intel. Per giustificare le motivazioni di quella scelta, Jobs dichiarò che egli stesso avevo promesso in passato di realizzare un Power Mac con un processore G5 da 3GHz, così come dotare il Power Book di un processore G5 low energy.
Purtroppo, entrambi questi chip non erano stati resi disponibili e questo impediva ad Apple di realizzare i “dispositivi da sogno” del futuro. Il messaggio in pratica era di una Apple in grande fase creativa, con la voglia di mettere sul mercato prodotti estremamente innovativi, ma che si trovava all’interno di un gigantesco lock-in tecnologico, la dipendenza da Power PC, che non le consentiva di realizzarli. Ecco quindi la necessità di cambiare architettura e portare i propri dispositivi a un livello superiore.
Più potenza, meno consumi e meno errori
Adesso, a distanza di 15 anni, la storia si ripete identica. Apple sta chiedendo da tempo ad Intel la produzione di chip più potenti, con consumi più bassi e con cicli di correzione degli errori inferiori. Lo chiede per un semplice motivo: Apple stessa è in grado di farlo con le sue linee di produzione dei processori della seria AX (attualmente siamo al A12z) su architettura ARM. Vista quindi l’impossibilità di ottenere questi risultati con processori Intel, Apple ha deciso di far da sé, portando nel giro di due anni tutta la sua linea di produzione su processori prodotti internamente.
Una scelta non facile
Non bisogna pensare che sia una scelta facile: cambiare architettura ha il non trascurabile effetto collaterale che, per dirla in parole semplici, tutto il software, a cominciare dal sistema operativo, smette di funzionare. È quindi impossibile ipotizzare un cambio del genere senza una completa e complicatissima roadmap di interventi, che passa innanzi tutto dalla messa a disposizione immediata di un sistema operativo adatto a girare sulla nuova piattaforma. Con questo obiettivo Apple ha presentato la versione 11 di MacOS che ha il nome di Big Sur, una regione della costa centrale della California. Si tratta di un nuovo sistema operativo che strizza l’occhio in alcuni elementi alla piattaforma iPadOS, tanto è vero che le applicazioni per iPhone e iPad possono funzionare nativamente senza alcuna conversione visto che si tratta della stessa identica architettura hardware, e che fa ipotizzare una futura generazione di computer touch screen, magari con il touch limitato alle funzionalità della Apple Pencil.
MacOS 11 sarà ovviamente fornito anche in una versione funzionante sull’attuale architettura Intel in modo da essere disponibile su buona parte dei 100 milioni di Mac attivi al mondo, almeno quelli non troppo vecchi. La necessità di avere due versioni apparentemente uguali, ma in realtà così diverse, implica un raddoppio dello sforzo necessario per progettazione, sviluppo e manutenzione.
Il Developer Transition Kit per la conversione delle app
Lo stesso discorso è applicabile a tutto il software ad oggi disponibile: ogni sviluppatore dovrà convertire le proprie applicazioni in modo che siano funzionanti al più presto sulla nuova architettura e da quel momento dovrà supportarne due versioni apparentemente identiche, ma che potrebbero in effetti essere piuttosto diverse. Per semplificare il lavoro degli sviluppatori Apple ha reso disponibile un Developer Transition Kit che consentirà agli sviluppatori di iniziare a lavorare già da ora alla conversione. Si tratta di una macchina Mac Mini all’interno della quale è presente un chip A12z, lo stesso che troviamo nell’ultima versione dell’iPad Pro. In dotazione gli sviluppatori troveranno anche gli strumenti in grado di convertire le applicazioni e di provarle sulla nuova architettura. Questo kit viene concesso in noleggio al costo di 500$, poi gli sviluppatori dovranno restituirlo, questo ne fa da subito un prodotto iconico che diventerà il sogno dei collezionisti.
Per essere ulteriormente pronti e poter mettere a disposizione degli utenti alcune delle suite maggiormente utilizzate in ambito business, Apple ha già da tempo iniziato a lavorare con Microsoft e Adobe in modo da avere le loro suite pronte nel momento in cui il nuovo hardware verrà messo sul mercato, si parla dei primi modelli a inizio 2021, quindi ci siamo quasi.
Per tutto il software che non sarà convertito in tempo Apple mette comunque a disposizione, sull’hardware dotato della nuova architettura, una serie di strumenti in grado di far funzionare anche le applicazioni sviluppate per la vecchia, si tratta di specifici applicativi che, con qualche limite, dovrebbero consentire un utilizzo quasi normale anche per quelle applicazioni che arriveranno in ritardo.
Un doppio impegno per molti anni
Naturalmente, come da prassi Apple, questo doppio impegno verrà mantenuto per un bel numero di anni, si parla di 5 ma c’è chi ipotizza anche 7, per fare in modo che tutti quelli che hanno un dispositivo non troppo vecchio possano comunque continuare ad utilizzarlo. Si tratta di una cosa molto importante perché molti acquistano prodotti Apple anche per la loro particolare longevità e non vedrebbero di buon occhio una riduzione del supporto per un cambio di architettura che non li riguarda.
Come al solito, e come avviene in tutti i processi di innovazione, non è sufficiente avere un’idea supportata da buoni razionali e da modelli di business interessanti, perché il vero processo di innovazione avviene proprio durante la difficilissima fase di esecuzione, e la roadmap che Apple si è data ne è una dimostrazione lampante.
Quello che possiamo apprezzare, qualunque sia il risultato che avrà nel medio periodo questo cambio di architettura, è che per ottenere i risultati sperati talvolta è necessario uscire dalla propria comfort zone, rischiare ed investire, superando i vincoli che ci si era dati in precedenza e non consentire mai alla famigerata frase “abbiamo sempre fatto così” di diventare una scusa per non innovare.