Il 2021 sarà l’anno in cui la banda ultralarga diventerà così importante che finalmente ci comporteremo come se davvero fosse importante.
Nel 2020, bloccati in casa dalla pandemia, tutti abbiamo capito che le telecomunicazioni sono fondamentali, il nostro cordone ombelicale con il resto del mondo, e che la banda ultralarga a casa può fare la differenza. Ma questo evidentemente non conta abbastanza. Quando le cose sono davvero importanti e toccano il futuro di tutti, non si accetta di deciderne nel modo in cui si sta decidendo del futuro della banda ultralarga in Italia.
Normalmente, prima di una decisione così importante si discutono gli obiettivi, si fissano le priorità, si valutano le migliori alternative, se ne valutano le conseguenze, si fanno scelte di conseguenza. Ma tutto questo non è accaduto per il progetto di rete unica, decisa senza una discussione pubblica. Ma nel 2021 le cose potrebbero finalmente cambiare.
Il dibattito sulla rete unica
Al momento, di rete unica non è che non se ne parli. Anzi, il volume della discussione è piuttosto intenso. Il problema è che se ne discute molto in superficie, dove la sostanza del dibattito è tutta finanziaria, non industriale.
Dovrebbe essere il contrario. La finanza è il mezzo per andare dove “industrialmente” si ritiene più conveniente andare. Viene dopo, quando si è già deciso cosa si vuole fare e perché. È finanza quando si spinge Enel a vendere la sua partecipazione in Open Fiber oppure CDP a firmare una lettera di intenti con TIM per creare AccessCo, unendo parte della rete di TIM e Open Fiber. Presuppone che si siano già chiariti obiettivi, priorità, alternative industriali e conseguenze. Ma nessuno ne parla né entra nel merito, come se fosse tutto chiaro, scontato. Uno Stato può anche farlo. Non è bello in democrazia, ma può essere anche accettabile in circostanze eccezionali. Lo diventa meno quando, invece, continuano ad emergere contraddizioni, incoerenze e scollature, segno chiaro che tutto ciò che normalmente è prodromico a una decisione di questa portata non solo non è comunicato ma non è forse chiaro agli stessi protagonisti.
La posizione di Conte contro Tim
L’ultimo episodio è stato proprio il 30 dicembre, in occasione della conferenza stampa di fine anno del Presidente del Consiglio Conte che, rispondendo a una domanda sulla rete unica, ha precisato: «Lavoreremo affinché si realizzi il progetto della società integrata, ma non integrata verticalmente, per cablare in fibra ottica l’Italia intera entro il 2025».
Il che è in stridente contrasto con quello che ha sempre affermato TIM: l’unico vincolo per la realizzazione della rete unica è il controllo sulla società della rete unica. Ma questo comporta incorporare Open Fiber per realizzare di nuovo un gruppo telefonico integrato verticalmente. Esattamente il contrario di quello che ha detto il Presidente del Consiglio. Viene spontaneo chiedersi come sia possibile che proprio sul nodo centrale non ci sia ancora accordo, data la lettera di intenti tra CDP e TIM del 31 agosto. A pensare male, l’unica alternativa possibile alla violazione del principio di non contraddizione è che si stia pensando a un escamotage giuridico che formalmente salvi capra e cavoli. Sarebbe una mossa azzardata e rischiosa, soprattutto nelle more del nostro già travagliato Recovery Plan. L’Antitrust europeo, come più volte è successo, ha sempre fatto prevalere la sostanza economica sui formalismi giuridici. In questo caso, inoltre, ci sarebbe l’aggravante di creare un precedente importante per situazioni simili che stanno maturando in altri Paesi. Sarebbe quindi un’iniziativa destinata con tutta probabilità a fallire, lasciando sul campo macerie politiche in una fase che ne creerà anche di più grosse.
Enel e Open Fiber
Prendendo per buona l’ipotesi di un tentativo di innovazione giuridica, le perplessità sul piano industriale che il 2021 dovrà chiarire comunque non finiscono qui. La più importante riguarda Enel e Open Fiber. Se Enel venderà la sua partecipazione in Open Fiber, sarà la fine di una boutade politica?
Anche se molta stampa continua a ripetere che Enel investì in Open Fiber per obbedire a un ordine di Matteo Renzi, allora Presidente del Consiglio, la verità storica – e industriale – è ben diversa. Se è vero che, data l’allora forte opposizione di Telecom Italia allo sviluppo della fibra in Italia, il piano Banda Ultralarga (BUL) del Governo Renzi non avrebbe mai visto attuazione senza la creazione di Open Fiber, non è invece vero che Starace acconsentì per assecondare Renzi.
Il tempo, che è galantuomo, ha dato ragione a entrambi. Ad onore del vero, senza l’iniziativa di Renzi avremmo affrontato il lockdown della pandemia in uno scenario per la connettività di gran lunga peggiore dell’attuale e – forse solo per questo – si starebbe appena ricominciando a parlare di reti in fibra ottica. Anche se oggi è di moda andare contro Renzi a prescindere, la verità delle cose non dovrebbe cambiare con il favore dell’opinione pubblica. D’altra parte, Starace approvò il progetto soltanto dopo un’approfondita analisi tecnica interna e l’esito positivo di un’analisi economica affidata a una primaria società di consulenza internazionale. Il progetto doveva stare in piedi anche senza le sinergie con il cambio dei contatori elettrici. La controprova della bontà della sua decisione di allora è stata l’offerta che Enel ha ricevuto quest’estate da Macquarie. Il fondo infrastrutturale australiano ha valutato il 50% di Open Fiber al netto del debito ben 2,65 miliardi, non molto meno dell’attuale capitalizzazione di borsa di Telecom Italia. L’offerta, che a determinate condizioni potrà anche aumentare di molto, equivale a più di 6 volte il valore di Open Fiber nel bilancio di Enel un’enorme plusvalenza in appena 5 anni.
Ma, elemento non secondario, anche se la vendita non verrà poi finalizzata, ora gli analisti sommano esplicitamente la valutazione della partecipazione in Open Fiber a quella del business tradizionale di Enel, spingendone il valore di borsa ai massimi di sempre, sopra i 90 miliardi di euro. È esattamente l’opposto di quel che accade a TIM che veleggia sui suoi minimi, intorno agli 8 miliardi. Queste, però, sono le conseguenze finanziarie delle scelte industriali fatte allora ma valide a maggior ragione adesso. Nonostante i forti ribassi nelle gare pubbliche per le aree bianche e i ritardi di Open Fiber, dovuti soprattutto alle iniziative strumentali di TIM, poi multate dall’Antitrust italiana, la fibra ottica è un’infrastruttura sempre più preziosa. E il suo valore è più alto se si porta la fibra ottica nelle case usando la rete elettrica che – come si è visto – permette di riutilizzare le infrastrutture esistenti in una misura compresa tra il 60% e l’80%.
Le tre questioni industriali da chiarire nel 2021
Allora, le questioni industriali da chiarire nel corso del 2021 saranno tre.
La CDP e lo sforzo industriale di Open Fiber
La prima riguarda Enel. Anche se dovesse vendere la sua partecipazione in Open Fiber, non uscirebbe dal business delle reti in fibra. Ha già creato una Ultra Broadband Global Business che, tra le altre cose, nel 2018 ha comprato il 21% di Ufinet, il maggiore operatore in fibra all’ingrosso dell’America Latina, presente in ben 17 paesi. Quest’anno scade l’opzione di acquisto sul restante 79% del gruppo che, con le regole fissate nel 2018, prevedono un prezzo che, nel peggiore dei casi, sarà inferiore all’incasso che farebbe vendendo la sua quota in Open Fiber.
D’altronde, c’è sempre più fame di infrastrutture in fibra nel mondo, soprattutto all’ingrosso: è un servizio essenziale con un cashflow prevedibile, una durata del business ultradecennale e molte possibili sinergie con il settore elettrico ancora non sfruttate. Chi, come Enel, ha dimostrato di essere capace di riuscire a crearle, ha ampi margini di creazione di valore. Ma, se industrialmente la creazione di Open Fiber aveva – e ha – senso, allora appare come una contraddizione l’atteggiamento di Cassa Depositi e Prestiti che, pur beneficiando come Enel della creazione di valore di Open Fiber, in più passaggi è apparsa propendere per TIM, nonostante il suo investimento in Open Fiber sia tutto italiano e ben maggiore in valore della sua partecipazione nella stessa TIM, ormai a controllo straniero. Non avere sostenuto Open Fiber in questo sforzo industriale proprio in Italia resterà per CDP un’occasione perduta.
2021: comincia lo switch off del rame?
La seconda è collegata alla prima. Stendere reti in fibra riutilizzando le infrastrutture elettriche, come già detto, è più efficiente. Inoltre, creare una rete in fibra ex novo, senza retaggi di tecnologie obsolete, è ancora più efficiente. La fibra permette lunghi tratti, anche decine di chilometri, senza bisogno di ripetere il segnale. Ciò consente di coprire l’intero territorio nazionale con meno di 2000 centrali, peraltro più piccole, con meno personale, più facili da gestire e più ecologiche rispetto a quelle di TIM, che copre lo stesso territorio con circa 10.400 centrali avendo la sua rete in rame una distanza ideale tra centrale e utente finale di circa 1,4 km.
TIM ha un piano per chiudere quasi 7000 centrali e, avendo già modificato i contratti dei clienti per poterli migrare forzatamente a FTTC, un passaggio essenziale per poter poi procedere con lo spegnimento delle centrali minori, forse il 2021 sarà anche l’anno dell’avvio del processo di switch-off del rame. Ma, se il progetto di rete unica dovesse andare avanti, si riutilizzerebbero le reti elettriche o quelle telefoniche? Chi si farà carico dei costi differenziali, che sono rilevanti sia in conto investimenti sia in conto manutenzione?
Chi sarà il “campione nazionale” della fibra ottica
La terza riguarda il Paese e CDP. Già all’inizio di quest’anno ci sarà un grosso nodo da sciogliere. La UE ha fissato la digitalizzazione del Paese come priorità del Recovery Plan italiano. Se, come è ragionevole attendersi, avrà bisogno di un “campione” nazionale che faccia da pivot per sviluppare adeguatamente progettazione e realizzazione delle nuove infrastrutture di telecomunicazioni, se darà il controllo di Open Fiber a TIM, chi potrà utilizzare? Anche se Open Fiber non è una società perfetta, in 4 anni è riuscita a diventare il terzo operatore in fibra in Europa, dopo Telefonica e Orange. Accantonarla, come sembra si voglia fare, con un processo sommario è perlomeno ingeneroso. Inoltre, scartarla significa dovere contare su un’azienda i cui azionisti hanno già voltato le spalle al Governo italiano una volta e in momenti ben più favorevoli di questi. Sono presenti in TIM dal 2015 ma in così tanti anni non hanno mai esplicitato le loro intenzioni industriali se non in forme così generiche da essere vacue. Il 2021, però, finalmente metterà i primi punti fermi nella contesa tra Vivendi e il Gruppo Fininvest. E, sempre a pensare male, dovrebbe portare chiarezza anche sul dossier parallelo di TIM. Comunque, tutte queste incognite e le possibili sorprese, non sono un buon auspicio per il nostro già difficile futuro prossimo.
Inoltre, TIM ha le sue difficoltà, che sono crescenti. Il suo rating creditizio il 10 dicembre ha subito un ulteriore downgrade da parte di Moody’s. Era già al di sotto dell’investment grade ma, non solo è stato ribassato ulteriormente, ha ricevuto anche un outlook negativo. La ragione del downgrade è tra le pieghe della sua motivazione. Come è noto, i ricavi di TIM ormai da molto tempo continuano a calare e non accennano a stabilizzarsi, i suoi costi sono stati ormai ridotti all’osso, ha ripreso a distribuire dividendi ma deve investire in Italia e in Brasile.
Come anche altri accordi già conclusi da TIM, l’accordo con KKR per la creazione di FiberCop porta risorse fresche per la riduzione del debito ma nasconde tra le pieghe frutti pesanti da digerire, se non avvelenati. Prevede nuovi vincoli stringenti ai piani di investimento, riduce le opzioni future di TIM ma, soprattutto, fissa rendimenti minimi garantiti per il capitale investito dai nuovi soci ben più alti del costo medio del debito di TIM. Il risultato è che TIM allo stesso tempo si sta irrigidendo e deverticalizzando. Da una parte, sta perdendo la sua tradizionale flessibilità strategica negli investimenti, ma anche la disponibilità delle risorse finanziarie per esercitarla. Dall’altra, paradossalmente, sta perdendo la sua integrazione verticale da incumbent, ma a pezzi, con meno vantaggi e gli stessi problemi. Ne mantiene relativamente la disponibilità pur cedendo parte della proprietà, sebbene rinunci ad asset di maggiore valore (come la rete secondaria) perché meno soggetti a concorrenza, restando esposta con quelli più legati alle evoluzioni del mercato. Date le incertezze del settore, una combinazione pericolosa ma che già nel 2021 si potrà capire se possa davvero funzionare.
L’istruttoria Antitrust
La partenza non è stata incoraggiante. Con l’inchiostro dell’accordo FiberCop ancora fresco, l’Antitrust italiana ha appena avviato un’istruttoria per accertare se “gli accordi in questione non comportino restrizioni concorrenziali non necessarie”. In altre parole, il sospetto dell’Autorità è che con questo accordo TIM possa indebitamente prolungare la vita del rame, favorendo implicitamente le reti FTTC, a discapito di quelle in fibra FTTH. Il procedimento potrà durare fino al 31 dicembre 2021. Quindi, nel migliore dei casi, sicuramente ne ritarderà gli effetti. Ma, comunque, già così diventa difficile presentare FiberCop come il presupposto ideale su cui poi costruire la rete unica che deve cablare in fibra l’Italia. Andrebbero chiarite industrialmente molte cose prima di procedere.
In Italia occorre ancora completare la cablatura di circa un terzo del paese, le aree grigie. Sono tre anni che una parte importante del paese aspetta di sapere come avrà accesso alla banda ultralarga. Infratel lo aveva promesso entro il 2020, ma non è poi stato presentato. Bellezza, amministratore delegato di Infratel, ha detto che finalmente nel 2021 ci sarà il piano per le aree grigie. Purtroppo, anche se nessuno lo dice a voce alta, la sensazione è che finché non si decide come si procederà per la rete unica, tutto resterà fermo. Ancora una volta le questioni finanziarie appaiono pericolosamente anteposte a quelle industriali. Il piano per le aree grigie è il vero obiettivo infrastrutturale della rete unica. Ma, procedendo così, già si contraddicono le premesse: la rete unica fa male alla digitalizzazione del Paese e la rallenta.
Le altre incognite sulla digitalizzazione del Paese
La rete unica è la principale incognita da sciogliere nel 2021, ma non l’unica. Quest’anno dovremmo anche capire come gli operatori mobili svilupperanno i propri piani di copertura in 5G dell’Italia. Quel che sembra prepararsi è una riedizione di quanto successo con la fibra ottica: molti a scannarsi nei grandi centri, nessuno nei piccoli e medi centri, difficili da coprire ma dove vive il 65% della popolazione italiana. Un’altra incognita è all’intersezione tra i destini del 5G e quelli del fixed wireless access (FWA), che sembrano sempre più legati. Il FWA sta suscitando sempre più aspettative nelle aree marginali e rurali.
Fastweb e Linkem sono in prima linea usando il 5G, Eolo è già pronta con il suo servizio ad alta velocità che parte quest’anno. Già nei primi mesi dell’anno si dovrebbe capire come evolveranno ma su di loro incombe un’ulteriore grossa incognita.
Nel 2020 è divenuta operativa Starlink, la prima costellazione di satelliti per telecomunicazioni a orbita bassa (LEO), una costola della Space-X di Elon Musk. Sta sperimentando il servizio nelle aree rurali di USA e Canada ma già quest’anno dovrebbe partire anche in Europa con un servizio broadband da satellite a bassa latenza. A dicembre l’americana FCC per conto del governo federale americano le ha assegnato un fondo da 855 milioni di dollari per la copertura del servizio Internet nelle aree rurali. Se dovesse funzionare bene come mostrano le prime evidenze, rivoluzionerà il FWA ma anche le coperture in backhauling delle zone rurali. Insomma, sarà un anno critico nel settore delle telecomunicazioni.
Conclusioni
In conclusione, per noi italiani senza dubbio il nodo più importante del 2021 è legato alla rete unica e come evolverà. Nessuno si spinge a dire che la rete unica servirà a dare più banda a tutti gli italiani in meno tempo. Gli addetti ai lavori si accontentano di constatare che, al momento, nonostante le discussioni intense, Open Fiber non abbia ancora rallentato. L’evidenza storica è che quando si creano grossi carrozzoni tutto si ferma finché non si negoziano i nuovi organigrammi, si decidono le nuove modalità tecniche e, infine, si elaborano nuovi piani. Il fatto che ancora non si sia fermato tutto è indice che il processo ancora non è arrivato al punto di non ritorno. Quindi, viene naturale prevedere che, nel migliore dei casi, il 2021 non basterà per vederne i primi passi concreti.
Non è la prima volta che il futuro delle reti di telecomunicazioni viene deciso senza alcun dibattito pubblico. È accaduto per il Progetto Socrate, il primo progetto di rete ibrida in fibra ottica, interrotto nel 1998 quando aveva già raggiunto 1.500.000 case in 64 città avendo già investito 5 mila miliardi di lire dei 13 mila previsti. È per questo che in Italia non c’è la televisione via cavo, unico tra i paesi europei insieme alla Grecia. È successo anche per le modalità della privatizzazione di Telecom Italia, con le conseguenze che ancora vediamo: l’Italia è passata dall’essere uno dei leader internazionali delle telecomunicazioni a unico grande paese le cui telecomunicazioni sono controllate da soggetti esteri. Sta accadendo anche per la rete unica ma nel 2021 le cose promettono di essere diverse.
Mentre non sono ben chiare, come ho cercato di spiegare, le ragioni delle forzature a cui abbiamo assistito, la politica ha cominciato a prestare maggiore attenzione al tema della rete unica. Fratelli d’Italia le ha dato già da tempo una posizione centrale nelle sue proposte, la Lega segue con grande attenzione le sue evoluzioni, il PD ha chiesto un confronto in Parlamento e di coinvolgere finalmente anche gli operatori non direttamente coinvolti nell’accordo.
Quindi, che augurarsi per il nuovo anno? Finalmente un dibattito industriale sulle telecomunicazioni e non soltanto finanziario. A volte la normalità non guasta.