Siamo ormai entrati nella fase decisiva del processo di infrastrutturazione digitale del Paese. Risorse e strumenti sono nella disponibilità del Governo ed è sempre più chiara l’esigenza di costruire la rete in fibra in tempi conciliabili con l’esigenza di innovare e modernizzare il Paese. Continuiamo a pensare, e non siamo i soli, che per fare il salto digitale siano necessari investimenti, procedure snelle, competenze, tecnologie e funzioni regolatorie stringenti, in Italia e nella Ue.
Ma c’è bisogno anche di poter fare affidamento, come succede in tutti i paesi che hanno raccolto questa sfida, su un’azienda “di riferimento” in grado di garantire asset e competenze tali da rendere il passaggio alla digitalizzazione dell’economia e della società più agevole. Un’azienda che, di concerto con i regolatori istituzionali, si occupi di dare impulso e forza a questo processo. Nessun ritorno al “vecchio monopolista” che mortifica il mercato, non avrebbe senso, ma certamente un punto alto di eccellenza in grado di avere sguardo e visione rispetto allo scenario globale.
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Il nodo della frammentazione dei lotti
In questi mesi, tra i rilievi che la CGIL ha ritenuto di dover sollevare riguardo alla modalità con cui si è deciso di affrontare il tema dell’infrastrutturazione digitale del Paese, c’è la scelta di procedere con una frammentazione eccessiva dei lotti. Una scelta che a nostro avviso difficilmente potrà rispondere all’esigenza di costruire un modello di digitalizzazione al tempo stesso coerente e flessibile, capace di reagire alle difficoltà, agli imprevisti e ai cambiamenti di contesto e rispondere dunque alle sfide del PNRR.
In questo quadro il fatto che i bandi per portare connettività a utenti pubblici e privati, passando per le isole, le scuole e la sanità, siano stati predisposti con l’“Incumbent” nazionale destabilizzato e con un modello che rischia di non avere un’idea di quella che sarà, una volta aggiudicati i lotti messi a bando, la ricomposizione unitaria di sistema, per noi rappresenta un ulteriore problema. La gestione delle connessioni non può essere caotica e deve poggiare su un processo unitario ed efficiente.
La sensazione è che si sia scelto di trattare la rete di telecomunicazione, struttura portante dell’intero impianto contenuto nelle missioni del PNRR, come fosse un’opera pubblica “inerte”, ignorando il fatto che per connettere il Paese, da nord a sud, dalle aree interne alle isole, non è sufficiente posare i cavi, per poi metterli a disposizione del mercato.
Il rischio che abbiamo più volte evidenziato è quello di avere, a seconda dell’operatore o dell’area geografica, un avanzamento o un arretramento di tratti della rete, una disomogeneità che prima o poi mostrerà la sua fragilità in assenza di un’idea precisa e univoca di quella che deve essere l’architettura di rete, la gestione delle connessioni, delle innovazioni necessarie e degli investimenti da fare costantemente nel tempo.
Fronti critici delle gare 5G
In questo scenario, già di per sé critico, la proroga subita dai bandi di gara per le reti 5G, il cui termine di chiusura passa dal 27 aprile al 9 maggio, unitamente a quanto avvenuto nelle settimane scorse per i bandi relativi al Piano Italia a 1 Giga, (i cui termini sono stati spostati dal 16 al 31 marzo), e per i piani Sanità connessa e Scuole connesse (prorogati due volte, prima dal 15 al 30 marzo, e poi all’11 aprile), preoccupa non poco.
Anche per le due gare con le quali si punta a rilegare in fibra ottica più di 10.000 siti radiomobili esistenti e a realizzare nuovi impianti in oltre 2.000 aree entro il 2026 si registra, infatti, un ritardo nell’aggiudicazione dei lotti. E questo avviene nonostante le condizioni per gli operatori siano molto meno stringenti rispetto a quelle presenti negli altri bandi (rimborso fino al 90% delle spese sostenute dagli operatori aggiudicatari, che manterranno la proprietà delle infrastrutture, e nessun tetto massimo di lotti aggiudicabili).
L’aver pensato di frammentare quella che consideriamo la più grande opera infrastrutturale del Paese non aiuta, e forse qualche problema risiede anche nella modalità con cui sono stati strutturati i bandi. Il rischio è quello di mettere in pericolo il raggiungimento entro la fine di giugno degli obiettivi legati allo sviluppo delle connessioni ultraveloci, come previsto dall’impegno preso con la Commissione Ue, e dunque di non raggiungere nemmeno l’obiettivo che il Governo si è dato, che è quello di portare l’Italia a colmare ritardi e gap infrastrutturali in tema di connettività entro il 2026, anticipando di addirittura quattro anni la data fissata dalla strategia europea Digital Compass. Questo, come è noto, permetterebbe al nostro Paese di sfruttare appieno le risorse del PNRR destinate alle reti ultraveloci (banda larga e 5G), 6,71 miliardi di euro.
Bando Italia a 1 giga, i risvolti positivi
In questi ulteriori ritardi ravvisiamo dunque l’assenza di una strategia sufficientemente strutturata e resiliente, che non si limiti a promuovere spesa in una fase straordinaria per poi lasciare al mercato la gestione di quello che ormai si è affermato come un vero e proprio diritto, quello alla connettività, in un’Italia Italia che sconta ancora gravi ritardi per la copertura delle “aree bianche” (quelle a fallimento di mercato), dove ogni giorno diventa più stridente il divario fra aree geografiche.
Per questo crediamo sia positivo il fatto che per l’aggiudicazione del bando Italia a 1 giga da 3,65 miliardi sembrerebbero esserci in campo solo le offerte arrivate da Tim, con Fibercop, e Open Fiber. Questo renderebbe sempre più concreta la realizzazione di una rete unica, frutto della fusione dell’incumbent nazionale e di Open Fiber, e permetterebbe di riunificare ciò che sembrava essere destinato alla frammentazione, mettendo il nostro Paese in condizione di avere una rete in cui sviluppo e investimenti possano avere una dimensione generale riguardo alla manutenzione così come alla tecnologia. Il tema centrale resta, infatti, di coniugare gli investimenti accompagnandoli da scelte chiare di politica industriale.
La priorità: una visione strategica
Il PNRR, e senza soluzione di continuità tutti gli altri fondi messi a disposizione per integrare interventi nelle zone più svantaggiate del Paese, sono indubbiamente lo straordinario strumento in grado di ridurre divari territoriali, sociali ed economici. Ma senza una visione realmente strategica e, nel caso specifico della rete, senza un soggetto che non si limiti a rivendere connettività al mercato (wholesale only), come garantiremo al Paese una rete con parità di accesso e di servizi offerti? E ancora, nell’ottica della realizzazione e del consolidamento di un sistema di telecomunicazioni europeo, chi si candiderà a dialogare, in una posizione paritaria, con gli altri soggetti industriali, garantendo la tenuta di scelte e politiche di sistema? Lo chiediamo perché i piani di sviluppo della banda ultralarga che si succedono ormai dal 2015 non hanno colmato il “digital divide” che ancora condanna milioni di cittadini in una condizione di arretratezza tale da non consentire loro di usufruire appieno di questa rivoluzione.
I dati del Desi
Ce lo confermano i numeri del DESI 2021, perché sebbene si sia registrato qualche avanzamento sull’utilizzo dei servizi cloud e di e-government (36% contro il 32% del 2020, ma ben al di sotto del 64% della media Ue), sulle altre voci continuiamo ad arrancare.
Quanto alla formulazione dei bandi, abbiamo apprezzato il fatto che tra i criteri di assegnazione sia prevista l’attribuzione di un punteggio aggiuntivo legato alla qualità di assunzione del personale, agli impegni relativi a inclusione, diversità di genere, persone con disabilità e sostegno a categorie svantaggiate.
Manca però del tutto il riferimento al vincolo per gli aggiudicatari dei bandi di applicare correttamente i CCNL, strumento necessario per garantire la qualità del lavoro che si produce con gli investimenti del PNRR. Un vincolo per noi irrinunciabile in un sistema che genererà appalti e subappalti, frazionando ulteriormente un mondo che è già frazionato per non perdere il controllo della filiera e garantire buona occupazione, sia in termini di diritti che di competenze.
Conclusione
Questa, in sostanza, è la nostra critica ragionata alla gestione del PNRR e alla linea seguita fin qui dal Governo. Su questi punti intendiamo confrontarci, convinti come siamo che l’opportunità del PNRR, se colta fino in fondo, sia davvero l’unica (l’ultima?) in grado di fare superare al Paese quel processo di arretramento che abbiamo subìto negli ultimi vent’anni.