Prima conseguenza della Brexit sull’economia dell’innovazione: Londra perde la leadership di capitale dell’innovazione europea. E l’Europa perde la sua capitale IT. Questo potrebbe anche rappresentare uno stimolo sia per l’Unione Europea, nel mettere a punto nuove strategie per lo sviluppo del mercato digitale europeo, sia per altre capitali che volessero proporsi come nuovo faro innovativo del Vecchio Continente (perché non Milano?). Ma nel frattempo, bisogna fare i conti con altre conseguenze, tutte negative, della Brexit, evidenziate dagli addetti ai lavori: totale incertezza normativa su alcuni fronti fondamentali, come la privacy e l’e-commerce, caos nel mondo della ricerca sul fronte dei bandi che prevedono partner britannici. Vediamo l’impatto della Brexit sull’economia dell’innovazione con l’aiuto di un panel selezionato di esperti: Carlo Carnevale Maffè e Francesco Sacco, economisti della Bocconi, Alfonso Fuggetta, ordinario di informatica al Politecnico di Milano, Ernesto Belisario, avvocato e specialista in diritto delle tecnologie e dell’innovazione. Tutti d’accordo su un punto: l’unica certezza è l’estrema confusione che accompagna l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea.
«Mi sembra una sciocchezza fatta su scala continentale» commenta, senza mezzi termini, Francesco Sacco, usando inconsapevolmente un’espressione molto simile a quella scelta da Alfonso Fuggetta, che parla di «sciocchezza clamorosa». «Frammentare il mercato digitale non è una buona notizia» aggiunge Carnevale Maffè, mettendo subito il dito in una delle piaghe che si aprono con la Brexit.
«Londra è il 25% del pil britannico», e «gran parte dell’innovazione europea dipende da imprese che lavorano a Londra» sintetizza Francesco Sacco, per dare le dimensioni del fenomeno. La Brexit, secondo l’economista «non sarà un colpo mortale», ma l’impatto sarà molto negativo. A maggior ragione in un clima macroeconomico che vede l’economia alle prese con il difficile aggancio della ripresa dopo anni di recessione.
«Londra è un posto fondamentale per le start-up – aggiunge Carnevale Maffè -, dove abbiamo collocato tante imprese. E’ la città europea che offre l’ecosistema migliore», ad esempio per l’innovazione della finanza: «perdiamo la Silicon Valley della Fintech», e non solo. La capitale inglese, prosegue il docente della Bocconi, «ha sempre interpretato l’innovazione in ottica di servizi: pensiamo all’e-commerce, alla logistica». Una vocazione ai servizi, accompagnata da risorse di management e giuridiche leader in Europa.
E ora? A voler vedere il bicchiere mezzo pieno, invece che mezzo vuoto, si può pensare che si aprono nuove prospettive per altre zone che volessero candidarsi a diventare la nuova Silicon Valley europea. Secondo Sacco, le piazza alternative a Londra sono Francoforte, Parigi, Milano. La capitale francese ha il problema dello scetticismo americano, determinato anche dal fatto che non si parla inglese. Francoforte, continua Sacco «è una città molto piccola, non è l’ideale per l’innovazione». Milano, paradossalmente, potrebbe avere una carta da giocare. «Lo dico a malincuore, ma potrebbe essere una valida opportunità». Perché a malincuore? Perché la Brexit è un colpo molto difficile «per tutto il continente, per il progetto europeo, per quello che voleva dire. Non sarà una periodo facile da affrontare».
Carnevale Maffè, invece, ritiene che le due alternative migliori siano Dublino e Francoforte. Milano, e l’Italia, scontano un contesto normativo non certo ideale per il fare impresa, Parigi è penalizzata dal fattore linguistico. Perché Dublino? Perché «l’Irlanda ha una tassazione favorevole sulle attività economiche, parla inglese, uno status giuridico sostanzialmente simile a quello britannico, ad esempio sul fronte della protezione della proprietà intellettuale, già oggi è sede di istituzioni finanziarie e di asset management europee. E’ uno dei candidati più semplici», conclude il docente, che come seconda opzione cita invece Francoforte, che rispetto a Dublino vanta migliori comunicazioni (ad esempio, l’aeroporto).
Carnevale Maffè ritiene possano esserci risvolti positivi anche sul fronte dei fondi europei, che possono concentrarsi sulle start up di altri paesi. Ma ricorda che comunque «frammentare i mercati digitali non è una buona notizia», la Brexit comporta «rischi importanti, magari non da terza guerra mondiale ma comunque da non sottovalutare. «E’ strano che un popolo decida di farsi del male da solo» commenta il docente della Bocconi, fra i pochi che se lo aspettavano. La sua analisi del voto: «i 50enni e i 60enni inglesi hanno votato con la pancia per un passato che non può tornare. E hanno rubato il futuro ai 20enni che volevano un mercato aperto e integrato con il mondo».
Per quanto riguarda l’impatto sulle normative, che riguardano da vicino il settore tecnologico, Belisario prevede “importanti ripercussioni”, ad esempio per la privacy, e per tutte le tematiche relative al «trasferimento dei dati personali fuori dalla UE». «Non sappiamo davvero cosa comporti la Brexit, ci saranno appositi negoziati», ma «sicuramente possiamo dire che tutti i vantaggi che c’erano nel lavorare nel Regno Unito, sul fronte dell’uniformità della normativa, sono andati persi». Anche Belisario pensa subito alle start up, che avevano deciso di puntare sull’Inghilterra, e che ora potrebbero decidere di voler cambiare sede legale. In realtà, è bene precisarlo, per ora non cambia nulla, l’effetto del referendum non è immediato, ci vorranno tempi lunghi (si parla di almeno un paio d’anni) per rivedere regole e trattati. Ma un periodo transitorio, a maggior ragione se lungo, si porta dietro incertezze normative che certo non stimolano nuovi investimenti.
L’effetto immediato determinato dall’incertezza dunque, è il più temibile. Per il futuro, bisognerà invece vedere quali scelte saranno fatte. Belisario spiega quali sono i nodi fondamentali da chiarire. In primis, la protezione dei dati: dopo la Brexit, trasferire dati in Gran Bretagna potrebbe essere come trasferirli negli Usa.
Infine, la ricerca. «Nessuno era pronto a questo – commenta Fuggetta – e quindi ora c’è e ci sarà gran confusione». Primo problema: i bandi che prevedono partnership con gli inglesi. Probabilmente, prosegue il docente, fino a quando non ci sarà una nuova regola, varranno quelle vecchie. Ma la confusione, soprattutto sul fronte progettuale, è assicurata».