Piano triennale agid

Per una nuova PA (digitale), rompiamo gli ultimi silos

Sono gli ecosistemi il vero cuore della sfida, e per vincerla bisogna che qualcuno –tra Palazzo Chigi e l’Agid- definisca chiari obiettivi di offerta. Fino ad allora, qualsiasi ragionamento sui miliardi spesi o da spendere continuerà a rimanere una pura esercitazione accademico-tecnologico-finanziaria

Pubblicato il 06 Giu 2017

Paolo Colli Franzone

presidente, Osservatorio Netics

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Con la firma del Presidente del Consiglio, apposta la settimana scorsa, vede ufficialmente la luce il Piano Triennale per l’Informatica nella Pubblica Amministrazione.

E questa è una gran bella notizia.

Gestazione lunga (17 mesi), ma ne valeva la pena: il Piano è oggettivamente molto ben fatto, completo e ambizioso quel tanto che basta per risultare “simpatico” a chiunque abbia a cuore l’innovazione della pubblica amministrazione italiana. Meglio tardi che mai, diciamo, soprattutto se il lavoro compiuto dall’Agid e da tutti gli attori coinvolti verrà seguito da azioni concrete.

Il risultato non è affatto scontato: di piani molto ben fatti ma rimasti confinati nel perimetro degli obiettivi definiti e non attuati o attuati in minima parte, ne abbiamo visti più d’uno a partire dal mitico Piano Nazionale di e-Government del 2001.

Ma facciamo gli ottimisti: buttiamo il cuore oltre l’ostacolo e tifiamo per il Piano e per la sua piena attuazione.

Tralasciamo il problema temporale: un piano triennale 2017-2019 che esce a metà 2017 potrebbe non risultare facilissimo da implementare nel pieno rispetto del calendario. Per meglio dire: ciò che sarà difficile raggiungere è l’obiettivo di riduzione della spesa ICT della PA, in quanto occorrerebbe concentrare in un solo esercizio contabile (il 2018) una riduzione quantificata da Agid intorno agli 800 milioni di Euro.

Ragionevole ipotizzare che questo obiettivo possa essere procrastinato, proiettandolo magari al 2020 in modo da assicurarsi la possibilità di raggiungerlo più o meno in toto.

Ciò che conta è il modello a tendere proposto dal Piano: e su questo, possiamo essere tutti d’accordo nel dire che si tratta di un gran bel modello. Razionalizzazione, consolidamento, virtualizzazione, superamento degli eccessi di frammentazione dei “punti d’acquisto”, superamento dei lock-in attraverso una piena interoperabilità, utilizzo obbligatorio delle infrastrutture immateriali centrali già disponibili, eccetera.

“Hic manebimus optime”, viene da dire.

Ancora meglio sarebbe se al Piano venisse affiancato un documento strategico finalizzato a definire gli outcomes in termini di razionalizzazione e semplificazione del castello burocratico della PA, uscendo dall’autoreferenzialità che purtroppo continua a caratterizzare tutte le iniziative e le progettualità che in questo Paese hanno a che fare con l’informatica applicata alla PA.

Prima ancora di parlare di come dovrebbe essere fatta e quanto dovrebbe costare, occorrerebbe rispondere a una semplicissima domanda: a cosa serve, l’informatica nella PA? Definendo degli obiettivi puntuali in termini di razionalizzazione e semplificazione dei processi e di risultati tangibili e misurabili dalla casalinga di Voghera e dall’imprenditore brianzolo.

Ragionando in questi termini, per assurdo, potrebbe persino venir fuori una verità diversa: potremmo ad esempio scoprire che i 5,6 miliardi/anno spesi in informatica dalla PA italiana sono pochi, che per arrivare a uno Stato “smart” in tutte le sue emanazioni centrali, regionali e territoriali di miliardi in bit & bytes ne servono di più.

Questo Piano Triennale ha probabilmente il limite di ragionare a perimetro costante: “per fare le cose che facciamo adesso, possiamo spendere 800 milioni in meno”.

Ottimo, ma forse non sufficiente.

E’ vero che la legge di bilancio 2015 (la madre del Piano Triennale) sanciva la trasferibilità a investimento dei risparmi conseguiti in spesa corrente, e che quindi gli 800 milioni risparmiati andrebbero ad accrescere gli 1,1 miliardi attualmente spesi ogni anno per investimenti ICT.

Ma, ripeto, sino a quando qualcuno fra Palazzo Chigi e l’Agid non definirà esattamente “quale PA digitale vogliamo”, quali obiettivi concreti ci poniamo e offriamo ai cittadini e alle imprese “clienti” della PA, qualsiasi ragionamento sui miliardi spesi o da spendere continuerà a rimanere una meravigliosa esercitazione accademico-tecnologico-finanziaria.

Soprattutto se andiamo ad approfondire il capitolo degli ecosistemi, scoprendo che essi sono il vero cuore del problema e della sfida che dovremo affrontare, uscendo dalla logica dei silos e dei compartimenti stagni.

Ragionare in termini di ecosistemi significa cominciare a immaginare perimetri sempre più ampi, interazioni (e, conseguentemente, integrazioni) sempre più ramificate e “ibride” nel senso della compresenza di attori pubblici e privati: l’ecosistema “Giustizia” interconnette amministrazioni pubbliche, studi legali, notai, periti, financo agenzie immobiliari e banche se consideriamo la filiera delle esecuzioni; l’ecosistema Sanità coinvolge più di 80.000 soggetti privati (considerando come tali anche i medici di medicina generale, i pediatri di libera scelta, le farmacie, i centri diagnostici e le case di cura convenzionate) e 250 circa fra ASL, aziende ospedaliere e ospedaliero-universitarie, IRCCS, oltre alle 21 Regioni e Province Autonome, Ministero Salute, MEF, Istituto Superiore di Sanità, Agenas, AIFA, e così via.

Ragionare in termini di ecosistemi significa quindi cambiare considerevolmente i dati di riferimento e i valori in gioco. Scoprendo che di miliardi da investire ne servirebbero decisamente di più, ma che probabilmente gli investimenti di matrice privata potrebbero affiancarsi a quelli pubblici contribuendo alla risoluzione del problema.

Tutto ciò è possibile se riusciamo a trasformare le iniziative di crescita digitale del Paese da slides focalizzate sulle tecnologie e sull’adempimento a una sorta di piano industriale che evidenzi la generazione di valore per ciascuna singola parte in causa.

Così come ragionare per processi, avendo la capacità di entrare nel merito di situazioni a volte molto complesse (un esempio su tutti: la Sanità), potrebbe portarci a risultati inaspettati laddove riuscissimo a dimostrare che le tecnologie digitali sono in grado di produrre efficienza di gran lunga superiore al loro costo.

Mi aiuto con un esempio, ma ne possiamo fare a dozzine: in Sanità, il costo attuale della mancanza di interoperabilità fra apparecchi elettromedicali e piattaforme informatiche è superiore all’incirca di un ordine di grandezza rispetto al costo di un investimento finalizzato a garantirla.

Il problema è che se – come si è fatto nel Piano Triennale – si pensa al “digitale” come a un mondo fatto esclusivamente di server, personal computer e software gestionale amministrativo-contabile, non andiamo da nessuna parte in un ambito quale la Sanità. Un ospedale è molto, moltissimo diverso da un ministero o da un ufficio comunale, anche in termini di sistema informativo. Soprattutto, è un posto dove ogni giorno che passa contribuisce a erodere il confine tra “informatica tradizionale” e ingegneria clinica, contribuendo a rendere ancora più esteso l’ecosistema e terribilmente più complesso il problema della razionalizzazione.

In conclusione, a fronte di un gran bel Piano Triennale finalmente operativo quello che ci aspetta da domani è un lavoro piuttosto considerevole a livello dei singoli ecosistemi, finalizzato a verticalizzare (laddove necessario) gli obiettivi e le strategie di attuazione.

Una raccomandazione: “vale copiare”. Prendiamo esempio dalle eccellenze nazionali e internazionali tutto laddove ne esistono. E apriamoci alla cooperazione pubblico-privato, alzando se necessario l’asticella e “chiedendo molto” ai vendor: la qualità c’è, la disponibilità anche.

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