Quando si parla di competenze e culture in Italia non bisogna dimenticare che le classifiche internazionali ci posizionano costantemente agli ultimi posti: anche prima del digitale, nelle abilità fondamentali per la partecipazione alla vita e alla crescita civile (la literacy, la capacità di intendere pienamente e utilizzare la lingua madre; e la numeracy, la capacità di fare di conto per gestire a livello scientifico e tecnologico la complessità del mondo contemporaneo) l’Italia è in coda alle classifiche, come risulta dalle ricerche dell’Ocse Programme of International Assessment of Adult Competencies.
Per quanto riguarda il digitale, secondo il Digital Economy and Society Index (Desi), che valuta gli Stati dell’Unione Europea sulla base di cinque indicatori (connettività, competenze digitali della popolazione, uso di internet, integrazione delle tecnologie e servizi pubblici digitali), l’Italia è venticinquesima su ventotto. Il che significa mancare le opportunità di business offerte dalla digital economy, dall’e-commerce allo sviluppo di competenze digitali specifiche per lavoratori e manager, all’impiego di tecnologie nella progettazione di nuovi prodotti e servizi.
Ma non si tratta solo di digitalizzazione tecnologica: per superare questi ritardi è necessario distinguere chiaramente i due piani di intervento, quello delle competenze e quello delle culture, il che significa affiancare alla dimensione tecnologica quella epistemologica e di mentalità. In questo senso le competenze vanno viste come insiemi di saperi che permettono di procedere operativamente, a corto raggio d’azione e su breve durata, in una prospettiva fondamentalmente tattica: mentre le culture vanno viste come capacità articolate di sviluppare le proprie competenze con una visione a largo raggio e di lunga durata, sviluppando scelte strategiche in funzione della complessità della società contemporanea.
Ed entrambi i termini vanno declinati al plurale, competenze e culture: la molteplicità e la diversificazione sono infatti tratti costitutivi del mondo digitale, che non è più una nicchia unitaria i cui abitanti parlano lo stesso linguaggio, ma un universo variegato in cui i diversi soggetti (grandi aziende, piccole e medie imprese, istituzioni, PA, atenei, scuole, mondo politico, cittadini, associazioni, ecc.) tendono a definire – come è naturale – “il digitale” secondo le proprie finalità e i propri scopi.
Per quanto riguarda le competenze digitali, i problemi da affrontare sono molteplici: quello basilare del digital divide, innanzitutto, che tiene lontani ancora troppi cittadini italiani dagli impieghi fondamentali della rete (l’uso delle mail, la partecipazione pubblica on line, l’accesso alle fonti di informazione, ecc.) con forti concentrazioni di vero e proprio analfabetismo digitale nelle zone più svantaggiate; ma anche le competenze digitali per lo sviluppo delle piccole imprese, come fattori abilitanti per partecipare alla modernizzazione del paese sullo scenario competitivo internazionale: e in questo senso si muove la Coalizione Nazionale per le Competenze Digitali proprio con lo scopo di attivare sinergie fra soggetti di varia estrazione, sia pubblici sia privati.
Ovviamente il tema delle competenze si incrocia con quello della formazione, che è al centro del Piano Nazionale Scuola Digitale, grande progetto pluriennale destinato a sviluppare il digitale nelle pratiche didattiche come processi di trasmissione della conoscenza. Tuttavia, in questo campo, uno dei problemi aperti – e da non sottovalutare – è il fatto che ai tradizionali canali istituzionali (scuole, corsi professionali, master, atenei) si affiancano oggi sempre più numerosi approcci formativi “dal basso” (rinnovato interesse per il metodo Montessori; la Scuola 42 di Parigi; la Nanyang Technological University di Singapore che investe 75 milioni di dollari sul metodo delle flipped classroom, le “classi capovolte”; la frammentazione formativa implicita nel modello dei MOOC, o di TEDxAcademy.), approcci che – se indubbiamente rappresentano una potente spinta di autonomia e creatività – d’altro canto appaiono come difficilmente integrabili in una visione organica di formazione delle competenze.
Per quanto riguarda invece le culture digitali, è fondamentale adottare un punto di vista antropologico, e non classicistico: le culture digitali non sono (solo) la digitalizzazione dei beni culturali esistenti (una problematica che va definita piuttosto come Digital Cultural Heritage), bensì vanno viste come le strutture mentali, le aspettative, i sistemi valoriali, le componenti etiche, emozionali e anche creative che guidano nelle loro scelte i diversi soggetti (singoli o gruppi) che vivono e investono nel mondo digitale. Le culture digitali sono strutture cognitive di controllo, in grado di garantire il funzionamento di quello che si profila come un ecosistema digitale complesso, basato su infrastrutture interconnesse, sull’interoperabilità dei sottosistemi, sulle strategie territoriali a largo raggio. Il che implica – a cascata – accettare di affrontare una serie di problemi di non poca portata: la mappatura standardizzata delle competenze, anche uscendo dalla gabbia dei titoli di studio; la volontà di affrontare criticamente alcune mitologie mediatiche (i nativi digitali; gli hackathon; le start up); la consapevolezza che il digitale non è solo tecnologia di front-end, ma anche complessità sottostante; l’importanza sempre crescente e spesso occulta dei big data; la distinzione tra informatica e digitale, inteso proprio come ecosistema sociale; l’importanza metacognitiva del lifelong learning; l’impatto percettivo della smaterializzazione dei supporti; la pervasività del paradigma mobile-locative; e infine, più sullo sfondo, il cambio di stili di vita e di mentalità.