C’è un problema che aleggia da oramai alcuni anni attorno alle strategie di Governi e operatori di telecomunicazioni in materia di banda ultralarga: il famigerato “ultimo metro” che rende possibile una connessione autenticamente in modalità FTTH (Fiber to the home).
Se le varie azioni messe in campo fino ad oggi per accelerare il rinnovamento della rete Tlc del Paese mediante la sostituzione della vecchia rete in rame con una in fibra ottica – non da ultima l’invenzione di un competitor pubblico all’incumbent Telecom – pur facendo la tara tra annunci e realtà, procedono abbastanza spedite, gran parte delle ambizioni si schiantano, è il caso di dirlo, sull’uscio di casa.
Impianti ed edifici inadatti all’upgrading della rete
Non è certamente una notizia, infatti, la considerazione che gli impianti (tutti gli impianti, non soltanto quelli di Tlc) generalmente presenti nel patrimonio edilizio italiano sono vetusti e che l’anzianità media degli edifici complica fortemente le cose, dal momento che sono dotati generalmente di spazi installativi pressoché inesistenti o del tutto insufficienti a garantire l’upgrading necessario. Poco cambia anche quando questo viene “offerto” gratuitamente da Open Fiber, ovvero da quell’operatore wholesale che ha dichiarato ripetutamente di puntare alla realizzazione di una rete nazionale “solo” in modalità FTTH.
La verità è che dentro alle case degli italiani è difficile entrare e non di rado anche molto costoso e che le caratteristiche stesse del patrimonio immobiliare nazionale poco e male si sposano con un approccio “industriale” al problema che, non a caso, anche nel passato, è stato oggetto di “sante allenaze” col mondo artigianale (si pensi alle reti di installatori per l’attivazione della Tv satellitare).
Le “novità” (disattese) del T.U. per l’edilizia
Di questo sembrava convinto anche il precedente Governo, che pur lanciando sul mercato, con evidente intenzione disruptive, un operatore nuovo nuovo, costola di Enel, già con la Legge 164 del 2014 modificava il Testo Unico dell’Edilizia (DPR 6 giugno 2001 n. 380) inserendo il “nuovo” art. 135 bis. Cosa prevede questo articolo? Molto semplicemente che tutti gli edifici di nuova costruzione la cui domanda di autorizzazione edilizia sia stata presentata dopo il 1° luglio 2015 debbano essere equipaggiati con un’infrastruttura fisica multiservizio passiva interna all’edificio, costituita da adeguati spazi installativi e da impianti di comunicazione ad alta velocità in fibra ottica fino ai punti terminali di rete. Un obbligo che si estende anche a tutte le opere che richiedano il rilascio di un permesso di costruire ai sensi dell’art. 10, comma 1, lettera c, ovvero le cosiddette “ristrutturazioni profonde”.
L’intenzione del legislatore appare quindi quanto mai evidente e chiara: spingere affinché almeno le nuove edificazioni e quelle oggetto di significativa ristrutturazione vengano dotate fin dall’origine di un impianto di distribuzione dei segnali digitali in grado di favorire il completamento della rete a banda ultra larga, ovvero la rete in fibra ottica in modalità FTTH.
Semplificando, potremmo affermare che il Governo si era posto il problema di” accendere” la rete e di completare l’infrastruttura, compresa la tratta terminale, coinvolgendo in questa operazione gli investitori privati, ovvero i proprietari di immobili nuovi e ristrutturati, conscio del fatto che soltanto la predisposizione di impianti distribuzione del segnale a cura degli stessi avrebbe potuto snellire e accelerare il completamento della rete BUL.
Per soddisfare la norma, progettisti e imprese di costruzioni avrebbero dovuto semplicemente inserire nei loro capitolati un “impianto multiservizi”, ovvero la dorsale tecnologica dell’edificio che avrebbe consentito ai futuri inquilini il libero accesso a tutti i contenuti e le applicazioni digitali disponibili, siano essere provenienti dall’etere (ovvero dalle antenne collocate sul tetto) che dalla rete dati terrestre in fibra.
Per facilitare l’azione dei tecnici, con una tempestività davvero esemplare, il CEI (Comitato Elettrotecnico Italiano) ha immediatamente realizzato una guida applicativa (la 306/22), che consiste in una sorta di compendio di tutte le norme tecniche indicate nel provvedimento legislativo e si pone come imprescindibile punto di riferimento per chiunque si appresti a progettare e realizzare un impianto multiservizio.
La non duplicabilità dell’infrastruttura
La creazione di un “obbligo” i cui costi sono di fatto scaricati sul cittadino, lascerebbe intendere che anche in questo caso sia valida una regola aurea che riguarda tutte le infrastrutture strategiche di una Paese, ovvero la non duplicabilità. Una regola di buon senso, che ottimizza le risorse e instaura un meccanismo di diritti e doveri in capo ai detentori dell’infrastruttura o del tratto di infrastruttura: il dovere di aprirla a tutti gli operatori che ne facciano richiesta e di tenerla in manutenzione, il diritto a richiedere un equo compenso stabilito da una autorità garante.
Un approccio simmetrico a quello che da sempre regola i rapporti tra le Telco, ma che in questo caso ha acceso un florilegio di dubbi interpretativi che ora, come una frana lenta ma inesorabile, si stanno traducendo in un crescendo di contenziosi di fronte all’autorità garante (Agcom) tra proprietari di immobili e società di telecomunicazioni.
Il collo di bottiglia dell’ultimo metro
Qual è il canone corretto da pagare per accedere ad un impianto multiservizio realizzato a norma di legge e “obbligatoriamente”? E se il prezzo è giusto (parafrasando un celebre programma TV), una telecom o un operatore detentore di contenuti digitali, può duplicare la rete e rifiutarsi di utilizzare un impianto che lo Stato, e non altri, ha obbligato l’utente a realizzare a proprie spese? E infine quali sono le condizioni di gestione perché un impianto multiservizio possa/debba essere utilizzato da una telecom?
Lasciando sullo sfondo temi tuttavia cruciali, come la disinformazione dei tecnici (pubblici e privati) che ha penalizzato e continua a penalizzare l’applicazione della norma; la latitanza dell’autorità garante nel determinare le condizioni eque e non discriminatorie di utilizzo di un impianto multiservizio di proprietà condominiale; e ancora l’incapacità ad oggi del Ministero di gestire adeguatamente la partita allineando i diversi attori della filiera, è forse il caso di evidenziare il fatto, inequivocabile, a cui si accennava in apertura, ovvero che l’ultimo metro in fibra procede a rilento e tra mille difficoltà, ma non di meno che la cablatura in fibra proposta dagli operatori di TLC non ha le stesse caratteristiche di un impianto multiservizio, così come delineato nelle norme tecniche CEI e quindi non soddisfa l’obbligo imposto dalla legge.
Cosa vogliamo dire con ciò? Che forse incaponirsi a voler realizzare gli impianti condominiali di distribuzione del segnale in fibra da parte del telco non è una politica vincente, perché gli impianti dentro alle case degli italiani, non a caso, li hanno sempre realizzati gli artigiani. Quegli artigiani che se attivati, potrebbero accelerare enormemente il processo di realizzazione degli impianti in fibra, assicurando alle Telco di poter finalmente “accendere” le loro reti, fornire servizi innovativi e superare le percentuali imbarazzanti di adozione della BUL nazionale.
Una “grande alleanza” per l’ultimo metro
Servirebbe quindi una “grande alleanza”, in grado di superare le velleità monopoliste di vecchi e nuovi operatori e di andare verso un sistema che preveda più operatori interconnessi, dove la realizzazione dell’impianto condominiale sia delegata alla proprietà dell’immobile, che assicurandone la manutenzione e la funzionalità, deve avere anche i conseguenti benefici. Il primo dei quali, per quanto paradossale possa apparire, è proprio non avere un impianto in fibra ottica di proprietà di un operatore, ma disporre di un impianto multifibra idoneo a veicolare molteplici servizi innovativi, che è la condizione minima per proiettare nel futuro dei servizi digitali il patrimonio edilizio italiano.
Le scommesse che si aprono infatti sono molteplici, a partire dall’infrastruttura della rete a 5G e dalla televisione post switch off.
Ma perché la Telco dovrebbero spingere in tale direzione? Per una ragione semplice: perché la tratta terminale della rete è la più onerosa e problematica e perché se trovassero nelle case degli italiani tanti impianti multiservizio, il processo di completamento della rete subirebbe una fortissima accelerazione, a tutto vantaggio di chi offre servizi di tlc.
Sul fronte governativo, invece, non dovrebbe sfuggire che il coinvolgimento del mondo artigiano per la realizzazione e manutenzione degli impianti costituirebbe un meccanismo virtuoso per sviluppare economia e aumentare la ricchezza nei territori.