Con la crescente diffusione della connettività e dei servizi informatizzati, il Sistema Pubblico per la gestione dell’Identità Digitale (SPID) ha senz’altro il pregio della semplicità e dell’immediatezza per il cittadino e per le imprese: consente infatti l’accesso in rete a numerose infrastrutture amministrative, armonizzando la user experience attraverso un unico identificativo.
Vi sono molte opportunità e questioni irrisolte al riguardo che attendono una verifica di adeguatezza, come in parte già efficacemente esposto da voci esperte del settore.
Vorrei soffermarmi su un aspetto che a mio parere necessita di una più adeguata riflessione e cautela: il ruolo dominante che inevitabilmente ha e avrà il settore privato nella gestione delle nostre identità digitali e nei processi di identificazione e autenticazione elettronica.
A proposito dello SPID, l’avv. Andrea Monti (associazione Alcei) ha parlato giustamente di una “eclissi dello Stato sulla nostra identità pubblica” e cioè su “chi ha il diritto/potere di stabilire che io sono effettivamente io”.
Riflettiamo dunque su questo. Per la prima volta nella storia, nel dialogo con l’autorità il nostro identity provider non è più lo Stato, ma una parte terza: lo Stato si limita ad agire in qualità di organismo di vigilanza, rilasciando valutazioni di conformità. In altre parole, retrocede. E la questione non è certo da poco. Almeno fino a oggi però, ciò non sembra aver costituito una priorità nel dibattito sul tema, che prosegue tutt’ora indisturbato con il linguaggio dell’inevitabilità circa i processi di informatizzazione nell’amministrazione pubblica.
Superato l’entusiasmo per i vantaggi gestionali dello SPID, che sul lato pratico rimangono, con il necessario disincanto giuridico dovremmo però riuscire a vedere lo SPID per ciò che semplicemente è: un nuovo episodio di privatizzazione, che questa volta riguarda un diritto di eccezionale rilievo, l’identità individuale. Un diritto che costituisce il fondamento stesso del concetto di cittadinanza, ma che trasposto nella virtualità e affidato alle telco ora prende improvvisamente le sembianze minori di servizio: inizialmente gratuito, per un impatto meno invasivo sulla pubblica emotività; poi inevitabilmente a pagamento e con differenti scenari applicativi, perché gli identity provider dovranno ammortizzare i costi per le infrastrutture.
Ecco dunque che stabilire che io sono veramente io in un mondo intensamente digitalizzato diventa un business strategico.
L’identità infatti non è più diritto garantito dal patto collettivo con l’autorità statale, ma è trasformata in informazione-merce e in fonte di profitto. È lo stesso dialogo tra Pubblica Amministrazione e cittadino, ormai privato di universalità e relegato alla sfera dei consumi, ad essere mediato e a trasformarsi in commodity, attraverso una logica di mercato che prevale sul diritto. Trasposto lui stesso nella virtualità, anche il cittadino prende così le sembianze minori di utente-avatar.
Ci si è chiesto giustamente Che fine faranno i nostri dati?, una volta in mano ai gestori privati. La domanda fondamentale nel lungo periodo è però Che fine faremo noi?, se la nostra essenza e identità non apparterranno più a quel corpo giuridico collettivo legittimato democraticamente che è lo Stato, ma a parti terze.
Il quesito ci avvicina pericolosamente al romanzo di fantascienza Snow Crash di Neal Stephenson: una storia dominata da foschi scenari hobbsiani, in cui lo Stato è ormai una mera entità vuota senza poteri effettivi, i diritti costituzionali si sono definitivamente estinti e la dimensione politica degli individui è interamente sostituita da affiliazioni commerciali con grandi corporation, che agiscono come agenzie governative.
Pur non volendo indulgere nel catastrofismo, è evidente che la questione dell’identità digitale e dello SPID è molto complessa e riguarda la nostra dimensione politica collettiva, non solo la dimensione organizzativa dei servizi o la mera sicurezza informatica: ha a che fare infatti con il funzionamento e con la qualità della vita pubblica, con le attuali e future relazioni di potere, ed è destinata a connettersi con il tema delicatissimo della cittadinanza e dei suoi effettivi contenuti giuridici.
Cittadinanza significa individuare legittimamente la posizione, i vantaggi e le pretese degli individui nei confronti delle istituzioni pubbliche; ma significa anche creare e proteggere una dimensione universale ed egalitaria dei diritti al riparo dagli interessi transitori di natura privatistica.
Ora, se si risolve esclusivamente a favore dei mercati la tensione tra la tutela dei diritti garantita dallo Stato e i processi di digitalizzazione, allora la dimensione della cittadinanza risulterà parziale e indebolita, anziché arricchirsi di nuovi contenuti.
Non solo, ma nell’alta discrezionalità dei mercati sulle identità digitali, sarà sempre implicita una tensione alla disuguaglianza, proprio perché il mercato è un produttore naturale di disuguaglianze e nega la logica egalitaria e universalistica dei diritti.
Sul piano sia politico che giuridico, tutto ciò rappresenta un’involuzione storica su cui è necessario riflettere attentamente.
Paolo Coppola, consigliere del Governo per l’Agenda digitale, ha affermato che per far funzionare bene la Pubblica Amministrazione digitale, bisogna mettere al centro l’uomo. È vero, ma forse possiamo fare di più. Mettiamo al centro i diritti. Altrimenti il rischio è che persino il cittadino-suddito dell’ancien régime – quel sujet citoyen vincolato a precisi valori e aspettative definite dal sovrano, dalla città e dal ceto d’appartenenza – finisca per disporre di contenuti più certi circa la propria identità e il proprio status rispetto a un utente-avatar iperdigitalizzato.