Fin dalle prime applicazioni civili lo sviluppo dell’ICT è stato accompagnato da una crescente preoccupazione per le implicazioni sociali ed economiche del cosiddetto divario digitale. Il problema è ancora attuale a causa delle enormi differenze in termini di potenzialità di accesso che contraddistinguono il mondo contemporaneo, non solo lungo la dorsale che separa i Paesi Ocse e quelli in via di sviluppo, ma anche in riferimento all’Italia, dove asimmetrie nella dotazione infrastrutturale e profonde differenze territoriali nella distribuzione del capitale formativo e culturale determinano disuguaglianze marcate nei livelli di partecipazione consapevole e attiva agli ambienti della mediasfera, in generale, e, più specificamente, dell’infosfera delle reti.
Digital divide e scenario italiano
Di fronte alle sistematiche e sempre più intense trasformazioni della società digitale, tuttavia, corriamo il rischio concreto di combattere battaglie di retroguardia, o perlomeno di attestarci, nel contrastare il divario digitale, su paradigmi resi obsoleti dalle nuove dinamiche dell’immateriale. Ammettendo che i costi decrescenti di infrastrutturazione e, contemporaneamente, la maggiore avvedutezza dei decisori politici, oltre che le aggressive ma comprensibili istanze di ampliamento dei mercati delle maggiori web company, determinino nel medio periodo una riduzione degli squilibri nelle facoltà di accesso alla infosfera (di fatto viviamo già da tempo in una società digitale di massa), è infatti abbastanza ragionevole pensare che il divario digitale vada crescentemente spostandosi dalle disuguaglianze nelle e delle dotazioni delle strutture alle disuguaglianze nelle e delle capacità delle persone.
Per queste ultime vivere in una società smart, lavorare in un’economia smart, ma anche studiare e formarsi in una scuola e in università intelligenti, così come curarsi attraverso una sanità e una medicina sempre più condizionate, nel bene e nel male, dalle opportunità offerte da big data e intelligenza artificiale, significa (dovrebbe significare) evidentemente non solo avere un astratto diritto alla connessione, ma detenere un insieme di competenze, abilità e conoscenze, per usare la canonica tripartizione, che rendano concreti, sostanziali, perennemente esigibili e criticamente emendabili i diritti di accesso e partecipazione.
I rischi
Dal punto di vista dei possibili nuovi divari digitali che non riguardano strutture e tecnologie, ma le persone che devono stare e muoversi nelle reti, il pericolo maggiore è costituito dalla atomizzazione delle esperienze e delle modalità di fruizione dell’infosfera digitale. Non è un tema nuovo, evidentemente, giacché esso rimanda, ad esempio, all’ormai radicata preoccupazione per i modelli di alfabetizzazione digitale delle generazioni emergenti, che appaiono straordinariamente performativi, per così dire istintivi, dal punto di vista della pragmatica, ma molto meno avveduti e consapevoli sotto il profilo della sintassi e della semantica degli ambienti digitali; per cui, proverbialmente, i giovani – quelli che fino a qualche anno fa venivano definiti “nativi” – sanno come fare le cose, con grande e invidiata efficacia, ma non sanno sempre dire che cosa stanno facendo e soprattutto perché lo stanno facendo.
Sul lungo periodo, però, il rischio principale rubricabile all’interno della categoria digital divide è quello di una separazione acritica fra l’apprendimento scolastico-formativo dei linguaggi telematici, il loro uso specialistico e settorializzato nell’ambito della produzione di beni e servizi e gli impieghi delle tecnologie intelligenti nell’esercizio quotidiano delle prassi di cittadinanza.
Il ruolo dei dati
La crescente capacità di raccolta, elaborazione e renderizzazione dei dati che caratterizza l’internet delle cose richiede teste, digitalmente, ben fatte che siano in grado di contemperare dimensione critico-conoscitiva, applicativo-procedurale e riflessivo-competenziale nell’approccio alla società – ma forse potremmo dire “all’esistenza” – digitale. Molto spesso, al contrario, le strategie di rafforzamento e valorizzazione dei saperi digitali tendono a segmentare utilizzi e fruizioni, per cui abbiamo una scuola smart, frequentata da studenti smart, che non dialoga (o perlomeno non dialoga a sufficienza) con imprese e professioni a loro volta, e a loro modo, “intelligenti”, mentre a queste due dimensioni, quella formativa e quella economica, si giustappone, senza trovare significativi addentellati e spazi di intersezione, l’agency del cittadino/utente/consumatore digitale.
La sfida della smart economy
Ecco perché la sfida della smart economy (e ovviamente dell’impresa smart, come del lavoro smart, che abbiamo diffusamente conosciuto in una veste emergenziale e soprattutto parziale nell’ultimo anno e mezzo) non è questione che attiene esclusivamente all’efficientamento dei processi di produzione e alla dematerializzazione (e quindi alla riduzione della fatica) delle prestazioni fisiche, ovvero all’aumento del binomio produttività-sostenibilità e all’esigenza di una sempre maggiore competitività sui mercati internazionali. Una società costruita e articolata attorno a filiere di produzione di beni e servizi intelligenti, capaci di massimizzare il capitale conoscitivo e competenziale delle persone, è una società che induce retroazioni positive sulla scuola e sull’università (chiedendo ad esse di superare gli steccati fra saperi teorici e saperi applicati e fra tradizione umanistica e discipline tecnico-scientifiche) e che, contemporaneamente, si garantisce la partecipazione/attivazione consapevole, nei diversi ambiti di vita, di cittadini avvezzi, anche e soprattutto in ragione della familiarità maturata sui luoghi di lavoro, alle culture e alle pratiche degli ambienti digitali.
Simmetricamente, è invece illusorio (o forse sconfinante nell’inveramento di alcuni fra i peggiori scenari distopici concepiti dal Ventesimo secolo) immaginare una razionalizzazione telematica dei modi della produzione avulsa, o addirittura in contrasto e conflitto, con i processi, formali e non formali, di crescita delle persone, dalla scuola alle esperienze di vita associata. Parlare di economia smart (o di imprese smart) senza tenere in considerazione le correlazioni biunivoche che legano, nella società della conoscenza e dell’informazione, scuola, lavoro e cittadinanza significa adottare un approccio riduzionista e sottovalutare le potenzialità di un’economia dell’immateriale capace di trainare e stimolare processi diffusi di elevata alfabetizzazione e acculturazione.
Gli impatti su lavoro e società
Per il lavoro, nel lavoro e a partire dal lavoro capace di incorporare intelligenza – indipendentemente dai settori di applicazione, dalla produzione di beni di consumo alla cura delle persone – si può immaginare di costruire un modello di convivenza all’altezza del nuovo (e per tanti aspetti spiazzante) capitalismo dei dati. Una società meno sperequata e più inclusiva, caratterizzata da literacy diffusa e da maggiore mobilità sociale, e per ciò stesso affrancata dalle paure millenaristiche (il dominio della tecnica, lo scontro di civiltà, le migrazioni) determinate dall’inevitabile accelerazione del cambiamento.
Una società, se non ci si inganna, abbastanza vicina all’idea tratteggiata nel nostro dettato costituzionale, dove il contributo di donne e uomini al benessere individuale e collettivo, tramite il lavoro e i saperi che vi sono sottesi, è la condizione primaria e ineludibile per garantire la soggettivazione delle componenti precedentemente escluse e far sentire l’io sempre e comunque parte di un noi.