Lavoro agile

Lo smart working è legge nella PA, ecco come potrebbe cambiare tutto

Lo scorso 28 gennaio il Parlamento ha approvato il disegno di legge sul “lavoro agile”. Da parte del legislatore ora una chiara volontà a spingere l’adozione di un’organizzazione del lavoro che coniughi anche nel pubblico impiego stabilità e tutela nei contratti, con una maggiore flessibilità e responsabilizzazione nella gestione rapporto di lavoro. Ma sarà la volta buona?

Pubblicato il 01 Feb 2016

Mariano Corso

Presidente P4I e membro del Board Scientifico Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano

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Lo scorso 28 gennaio il Parlamento ha approvato il disegno di legge sul “lavoro agile”. Si tratta di un traguardo significativo, un passo avanti nel processo di promozione dello Smart Working.

Rispetto alle bozze il testo approvato in introduce un aspetto a nostro parere positivo e significativo: il riferimento esplicito alla possibilità di applicazione ai dipendenti delle Amministrazioni Pubbliche.

Questo del resto è coerente con quanto già presente nella riforma “Madia” della Pubblica Amministrazione approvata lo scorso agosto[1] in cui all’art. 14, nel quadro della “Promozione della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro nelle amministrazioni pubbliche”, si chiede di adottare misure organizzative per “l’attuazione del telelavoro e per la sperimentazionedi nuove modalità spazio-temporali di svolgimento della prestazione lavorativa che permettano, entro tre anni, ad almeno il 10 per cento dei dipendenti, ove lo richiedano, di avvalersi di tali modalità, garantendo che i dipendenti che se ne avvalgono non subiscano penalizzazioni ai fini del riconoscimento di professionalità e della progressione di carriera.” Per rinforzare l’indicazione il testo precisa che l’adozione delle misure organizzative e il raggiungimento degli obiettivi devono costituire “oggetto di valutazione nell’ambito dei percorsi di misurazione della performance organizzativa e individuale” attraverso l’utilizzo di “specifici indicatori per la verifica dell’impatto sull’efficacia e sull’efficienza dell’azione amministrativa, nonché sulla qualità dei servizi erogati, delle misure organizzative adottate…”.

A dispetto della scarsissima diffusione attuale nel settore pubblico, dunque, lo Smart Working nella PA da oggi non solo è possibile, ma diventa un obiettivo da raggiungere. Niente più vincoli né alibi normativi, ma anzi da parte del legislatore una chiara volontà a spingere l’adozione di un’organizzazione del lavoro che coniughi anche nel pubblico impiego stabilità e tutela nei contratti, con una maggiore flessibilità e responsabilizzazione nella gestione rapporto di lavoro.

Tutto bene dunque? Abbiamo una PA pronta alla rivoluzione copernicana del lavoro senza più vincoli di luogo ed orario? Non proprio. Denigratori del sistema pubblico e pessimisti avranno buon gioco nel ricordare come già in passato sono stati fatti proclami ed indicati obiettivi relativi all’adozione di misure di flessibilità e responsabilizzazione nella PA, obiettivi che alla prova dei fatti si sono dimostrati irraggiungibili quando non velleitari. Si pensi al telelavoro: fin dalla riforma Bassanini, il legislatore ha provato a introdurre misure di flessibilità e responsabilizzazione coerenti con la disponibilità della “rete” e delle nuove tecnologie. Gli obiettivi posti erano ambiziosi, i risultati conseguiti sono stati drammaticamente scarsi. Tante le cause del fallimento tra cui una scarsa propensione all’innovazione e alla assunzione di responsabilità, una cultura manageriale povera, un conformismo consolidato dal pregiudizio e dal sospetto di una cultura burocratica e legalista in cui ciò che importa non è davvero il risultato, né il servizio al cittadino, ma l’adempimento prudente e formale della norma.

Lo Smart Working non è il Telelavoro, ma per quale motivo dovrebbe funzionare? Perché non dovrebbe confermarsi l’opinione di chi, per ideologia o per interesse, insiste a dipingere la PA Italiana come ipertrofica e irriformabile?

Per rendersi conto di quanto pesante sia la realtà della PA oggi e di come, dopo anni di tagli, sia necessaria una svolta organizzativa e culturale bastano pochi dati oggettivi:

– i dipendenti della PA in Italia sono stimati in 3.300.000, circa 58 ogni 1.000 abitanti contro i 94 della Francia i 92 del Regno Unito e addirittura i 135 della Svezia.

– complice il lungo blocco del turnover, la loro anzianità è preoccupante: gli under 35 sono solo il 10% contro il 30% della Francia e il 35% del Regno Unito

– nonostante la seniority le retribuzioni sono basse sia in assoluto che in rapporto al nostro PIL: pesano oggi l’11,1% del PIL contro il 13,4% della Francia e il 19,4% della efficientissima Danimarca.

Oggi dunque, a dispetto dei tanti falsi miti, i dipendenti della PA in Italia sono pochi, anziani e mal pagati. In questa situazione ci sono per lo meno tre buoni motivi per prendere sul serio questo nuovo impulso normativo e puntare sullo Smart Working per dare una scossa culturale ed organizzativa alla Pubblica Amministrazione:

1) Lo Smart Working nella PA è un buon affare per i conti pubblici. L’esempio delle imprese che l’hanno attuato mostra come la sua applicazione consenta di risparmiare costi e aumentare la produttività. I soli risparmi alla riduzione dei costi di mantenimento degli spazi potrebbero portare un risparmio per i conti dello stato stimabile tra 1 e 3 miliardi[2]. Con lo Smart Working, dunque, si può creare efficienza senza incidere ulteriormente sull’occupazione, creando le premesse di un miglioramento della produttività che si traduca in un aumento della qualità dei servizi.

2) Estendendo lo Smart Working ai lavoratori del pubblico impiego si evita di creare nei loro confronti una forma di discriminazione, riducendo quel clima di sospetto e pregiudizio che sta avvelenando i rapporti tra politica, opinione pubblica e parti sociali. Nel settore privato lo Smart Working si sta diffondendo rapidamente, conquistando sempre più consensi tra lavoratori e sindacati. Nella PA gli effetti positivi in termini di conciliazione tra lavoro e vita privata, miglioramento del clima organizzativo e valorizzazione dei talenti, potrebbero far riscoprire giacimenti di entusiasmo ed energia sopiti da decenni di gestione manageriale burocratica e svogliata, contribuendo a dare alle tante persone valide e volenterose che operano nella PA l’occasione di ritrovare il senso di orgoglio e responsabilità legato all’essere al servizio della collettività.

3) Con lo Smart Working è possibile introdurre anche nella PA il principio della valutazione basata sui risultati e sui livelli di servizio più che sul presenzialismo o sull’adempimento di procedure burocratiche. Questa cultura nuova, molto più dei tornelli e dei controlli ossessivi sulla presenza può scardinare comportamenti scorretti e irresponsabili tristemente diffusi tra manager e dipendenti della PA e recentemente venuti alla ribalta in casi eclatanti come quello del comune di San Remo. Puntando sulla fiducia e la responsabilizzazione si può fermare la logica del pregiudizio e del sospetto ed iniziare a scrivere le regole per chi le vuole seguire e non per chi intende comunque agirarle. Resteremo allora stupiti da quanto i primi, le persone di buona volontà, sono più numerosi e potenzialmente influenti degli altri. Solo allora, con il supporto della coesione sociale e dello stesso sindacato, sarà più facile isolare e sanzionare i furbetti.


[1] Legge 7 agosto 2015, n.124, art.11: http://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2015/08/13/15G00138/sg

[2] La stima è fatta a partire dall’applicazione ai lavoratori della Pubblica Amministrazione dei risparmi riscontrati in aziende private. A stime analoghe arriva il CADIT (Coordinamento Autonomo dei dipendenti pubblici per il telelavoro e la mobilità sostenibile – www.caditweb.org) tenendo conto della riduzione dei costi diretti legati alla riduzione del numero di postazioni di lavoro fisiche necessarie.

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