Il mondo non è più quello di un volta. E la pubblica amministrazione volente o nolente ci deve fare i conti. Nel bel mezzo della crisi economica, la febbre collaborativa sembra contagiare, come in un effetto domino, gli aspetti e le pratiche della vita dei cittadini – consumatori, mettendo al centro le reti e la comunità e scalzando i confini tra soggetto produttore e soggetto consumatore. Da un lato le ormai celeberrime piattaforme on line, basate su transazione economica o meno: dalle pioneristiche statunitensi Airbnb per affittare la stanza che non usiamo a Taskrabbit, per offrire/reperire manodopera per i servizi di tutti i giorni fino a Kickstarter per il finanziamento dal basso di progetti creativi o ancora l’europea Blablacar per offrire/prenotare un passaggio in macchina fino alle piattaforme di scambio che non prevedono transazioni economiche, da Couchsurfing per lo scambio gratuito di ospitalità all’italiana Reeose, per il baratto “asincrono”, per non parlare delle numerose iniziative di formazione on line sotto il format MOOC (Massive Open On line Courses).
Dall’altro le pratiche con forte radicamento territoriale, in cui l’elemento tecnologico è decisamente un acceleratore, ma la vera benzina è la comunità locale, in linea con la tesi di Henry Mintzberg, comparsa lo scorso autunno sull’Harvard Business Review secondo cui “abbiamo bisogno di reti ma anche di comunità”, perché le reti connettono, ma sono le comunità a prendersi cura delle persone. Dall’energia di comunità di Melpignano in provincia di Lecce, dove i cittadini – soci autoproducono energia solare dai tetti delle proprie case alle leggendarie tages-mutter trentine che hanno fatto scuola esportando il modello della “mamma di giorno” in tutta Italia per ovviare alla scarsità di servizi per l’infanzia fino al neonato Ecomuseo Casilino, frutto nella periferia romana di un processo di progettazione partecipata da cittadini, scuole, associazioni, imprese, parrocchie, passando dalla diffusione dei co-working (spazi di condivisione di attrezzature di lavoro, dal pc alla sala riunioni), 350 secondo gli ultimi dati Coworking Italia, che sempre più si propongono nei quartieri come spazi di animazione non solo professionale ma anche sociale.
Il minimo comune denominatore della grande trasformazione in atto è nella rottura, innescata e accelerata dalle dirompenti innovazioni tecnologiche, del paradigma tradizionalmente bipolare tra proprietà e accesso, produzione e consumo, obblighi alla prestazione secondo procedura e diritto alla rivendicazione e al risarcimento, autorità e sottomissione in favore di una governance collaborativa che metta al centro l’interesse generale e sappia far leva su motivazioni, competenze e soddisfazione degli stakeholder, in termini non solo di risultato ma anche di processo.
Nel mezzo di questo cambiamento, di cui Jeremy Rifkin compare a pieno titolo tra i profeti, si trova la pubblica amministrazione.
Solo due anni fa la sharing economy e la pubblica amministrazione non sembravano avere molto da dirsi, se non per l’enunciazione di principi più o meno riconducibili all’art. 118 della nostra Costituzione (sussidiarietà orizzontale o cittadinanza attiva) da un lato e per la gestione delle prime “emergenze da uberizzazione” dei servizi dall’altro (basti pensare alle feroci proteste dei tassisti nelle città italiane contro l’utilizzo della app che permette di prenotare in tempo reale auto con conducente o, nella sua declinazione “pop”, di scambiare passaggi tra privati in ambito urbano).
Con lo sviluppo ulteriore delle piattaforme collaborative e con il conseguente aumento di offerta e soluzioni, sono senza dubbio esplose le “emergenze”, forzando il legislatore ad avviare confronti e lavori orientati alla regolazione o quantomeno all’armonizzazione degli interessi, ma al tempo stesso sono emerse con più evidenza le opportunità. In questa direzione va la proposta di legge di iniziativa parlamentare cd. sulla sharing economy attualmente in discussione, che non a caso dedica un articolo alla pubblica amministrazione, stabilendo un processo di scrittura di Linee Guida finalizzate ad “abilitare processi sperimentali di condivisione di beni e servizi nella pubblica amministrazione”.
La realtà è che la pubblica amministrazione vive un momento di trasformazione obbligata, prima ancora che dalla norma, dalla realtà socio-economica a cui si riferisce. E’ pronta?
Un recentissimo studio di Accenture su “L’innovazione del settore pubblico (statunitense) al tempo della We Economy”, mette in evidenza come l’amministrazione sia – anche oltreoceano – ancora disallineata rispetto ai cittadini: a fronte di percentuali che arrivano all’87% tra i cittadini che si dicono favorevoli all’adozione di questi modelli da parte del settore pubblico, meno della metà dei dirigenti pubblici afferma che ne prenderà in considerazione l’utilizzo nel corso dei prossimi 10 anni. Meno di 1 su 5 afferma di essere disposto a considerarlo alla stato attuale, pur se la larga maggioranza degli intervistati ne riconosce gli effetti positivi.
Bisogna però rendersi conto che il mondo non è più quello di una volta, e la PA deve farci i conti: “siamo dei follower, non degli innovatori” la conclusione condivisa dal primo tavolo di lavoro tenuto sulla proposta di legge sharing economy act, al Forumpa 2016 il 26 maggio.
Un percorso che procede velocemente, quello della legge sulla sharing economy: dopo la conclusione della consultazione on line, si aprirà un ciclo di audizioni, subito dopo le elezioni amministrative, e dopo una veloce fase emendativa si spera di arrivare in aula in autunno. È necessario dunque che la PA prenda atto della rapida trasformazione cui sta andando incontro. Una trasformazione accelerata dall’elemento tecnologico, ma della quale la vera benzina è la comunità locale, perché le reti connettono, ma sono le comunità a prendersi cura delle persone.