leadership digitale

Europa e sovranità tecnologica: quattro proposte per vincere la corsa globale

La UE deve rapidamente adottare delle iniziative concrete che la pongano al riparo dalle nuove dipendenze e vulnerabilità che accompagnano il progresso tecnologico. Ecco quali sono i fattori culturali e strutturali che frenano il vecchio continente e come superarli

Pubblicato il 27 Set 2019

Innocenzo Genna

giurista specializzato in diritto e policy europee del digitale

europe

Il controllo delle tecnologie digitali è un fattore sempre più decisivo per le sorti economiche, sociali e politiche dei paesi. Solo recentemente la politica ha però iniziato a prendere coscienza di questa problematica, riconoscendo l’impatto che le tecnologie digitali hanno sull’autonomia strategica dei paesi e sul fatto che una corsa globale alla leadership tecnologica ormai esiste, e non bisognerebbe farsi lasciare indietro. Ma mentre in passato la ricerca del primato riguardava soprattutto le industrie belliche e le infrastrutture, ora questa leadership tecnologica è destinata a giocarsi soprattutto nel digitale, abbracciando il sistema economico, sociale ed infrastrutturale nel suo complesso.

La Ue indietro nella corsa al digitale

Il digitale è infatti l’infrastruttura portante dell’intera società moderna, dalle comunicazioni ai pagamenti, dai servizi ai trasporti; tutto passa per il digitale, che si tratti di reti elettroniche, server o computer, smartphone e telefoni.

Nonostante la sua storia e le sue eccellenze, l’UE rischia di rimanere indietro in questa corsa. Per molto tempo in Europa ci si è preoccupati sopratutto della proprietà degli operatori di telecomunicazioni, istituendo meccanismi per opporsi alle acquisizioni estere (le famose “golden shares”, poi ribattezzate “golden powers”). Ma blindare la proprietà delle reti, cioè di Deutsche Telekom o Orange, può dimostrarsi velleitario, visto che ormai il grande business ed i servizi si basano sul cloud computing, un comparto dove l’industria europea è molto indietro rispetto agli stranieri: infatti in Europea il cloud è dominato dall’industria USA, che sia Amazon, Microsoft, Google ed IBM, mentre a livello globale emergono gli operatori cinesi. Ma gli americani sono leader anche in vari altri livelli della filiera tecnologica, dai microprocessori ai sistemi operativi. La Cina è invece avanti a tutti nel 5G, la tecnologia di trasmissione emergente del futuro. In altre parole, servizi e informazioni europee sono elaborate e trattate da macchine e tecnologie per lo più controllate da aziende, se non addirittura governi, extra-europei.

La disordinata guerra commerciale degli Usa

Questa situazione non solo mette a rischio la prosperità economica a lungo termine dei paesi che restano indietro, ma espone ad una serie di vulnerabilità strategiche, tanto più in un contesto di crescenti tensioni geopolitiche. Gli americani lo hanno capito ma hanno reagito a modo loro, cioè con una guerra commerciale disordinata che mette in difficoltà non solo i principali avversari (i cinesi), ma anche gli alleati tradizionali (l’Europa) e le proprie aziende (quelle che producono o vendono in Cina). Le iniziative di Trump hanno però il merito di avere fatto aprire gli occhi, e sobbalzare, a qualche cancelleria europea: cosa succederebbe se un giorno un embargo tecnologico non colpisse solo la Cina o l’Iran, ma anche aziende o paesi del vecchio continente?

E quindi l’Unione Europea? Recenti prese di posizioni e documenti di lavoro indicano che vi è ormai coscienza del problema, e che il tema occuperà una posizione di rilievo nell’agenda della Commissione per i prossimi 5 anni. Tuttavia, non si vede ancora un approccio organico e concreto su come recuperare una situazione che ci vede largamente indietro rispetto a USA e Cina. Pur rispettando la propria vocazione ad un’economia aperta, alla concorrenza e ad un commercio libero ed equo, l’UE deve rapidamente adottare delle iniziative concrete che la pongano al riparo delle nuove dipendenze e vulnerabilità che accompagnano il progresso tecnologico. La capacità dell’UE di difendere e promuovere i suoi interessi, nonché la sua credibilità in quanto attore forte in politica estera, dipenderanno in gran parte dalla sua resilienza cibernetica nonché dal suo livello di dominio tecnologico. In altre parole, dalla capacità dell’Unione Europea e degli Stati membri di mantenere il controllo delle tecnologie che sono indispensabili per il proprio sviluppo, benessere e sicurezza.

Le ragioni del gap europeo

La leadership tecnologica dipende da vari fattori, anche culturali e strutturali. L’Europa  dispone di risorse umane e materiali non inferiori a Stati Uniti e Cina, ma è frammentata e non dispone della stessa vocazione al venture capitalism degli Stati Uniti. Ne consegue che nonostante un eccellente sistema educativo ed una maggiore attenzione agli investimenti in R&S, molti cervelli tendono comunque a trasferirsi altrove, in particolare in California, contribuendo al rafforzamento della leadership tecnologica oltre oceano. Lo stesso vale per molte startup, il cui destino maggiormente agognato è quello di essere acquisite da un fondo o un operatore americani. E qui si apre un nuovo tema: è indispensabile che l’Europa spenda ed investa di più in ricerche e tecnologie all’avanguardia, al fine di colmare il gap con i principali concorrenti globali, ma come fare per trattenere in casa le eccellenze frutto di tanti sforzi, quando gli hub tecnologici e finanziari sono situati altrove?

Alcuni commentatori ritengono che questo gap tecnologico non sia più colmabile e che l’Europa sia ormai avviata verso un destino di vassallaggio tecnologico, verso l’America o verso l’Asia. Difficile emettere un giudizio così tranchant, visto che la tecnologia cambia rapidamente e con lei i destini delle aziende. La Cina non era un campione della tecnologia mobile, lo è diventata però con il 5G, presumibilmente in base ad una decisione strategica a cui la politica ha preso parte. Gli americani pensavano di conquistare il mondo con gli OTT, ma hanno forse riposto troppa fiducia sulla mano invisibile del mercato. L’Europa ha le risorse per ripartire ma deve soprattutto essere in grado di difendere le proprie iniziative strategiche con delle misure concrete. Partendo con un mercato più piccolo (in quanto frammentato e diviso linguisticamente) e con aziende più piccole, bisogna considerare alcune misure ad hoc per difendere la rincorsa a Stati Uniti e Cina.

Ecco qui alcuni esempi:

  • imporre l’interoperabilità nei confronti delle maggiori piattaforme online. I giganti Internet sono tali perché costituiscono degli ecosistemi chiusi, al di fuori dei quali non esiste un mercato significativo. E’ una conseguenza delle network externalities: gli utenti tendono ad aggregarsi attorno alle piattaforme più popolose (a volte una sola), al fine di massimizzare contatti e relazioni. Da ciò deriva il successo per Facebook nei social, Amazon per il commercio elettronico, Google per le ricerche online ecc. L’obbligo di interoperabilità, laddove tecnicamente possibile, permetterebbe ai concorrenti, europei e non, di competere nei mercati presidiati  da tali giganti e di sfruttare le loro network externalities. Per fare un esempio, con l’interoperabilità una start-up europea di messaggistica potrebbe consentire ai propri utenti di comunicare con quelli di Whatsapp (o Skype, oppure Messenger); senza l’interoperabilità, invece, nessuno avrebbe interesse ad utilizzare il servizio della start-up europea, perché quasi tutti gli utenti con cui connettersi sono già attestati sulle piattaforme americane (o ex-europee, come nel caso di Skype);
  • favorire l’open source e l’economia collaborativa. I giganti online basano la loro forza su sistemi totalmente o parzialmente proprietari, difficili da replicare a causa degli alti investimenti richiesti. Con il software open source è invece possibile sviluppare degli ambienti tecnologici attraverso la cooperazione di community e la condivisione del software, applicando in sostanza il motto “l’unione fa la forza”. Questo modello potrebbe consentire ad imprese di medie dimensioni, europee e non, di avvicinarsi alle scale dei giganti Internet americani. Si badi bene, gli stessi americani sono campioni dell’open source. Ma occorre ammettere che spingere un modello che consenta di aggregare e condividere le risorse, sia comunque maggiormente favorevole per le aziende europee;
  • una politica antitrust innovativa. Occorre riflettere se sia possibile porre dei vincoli antitrust ai giganti Internet stranieri che facciano shopping di imprese innovative e concorrenti stabilite nella UE. E’ noto che la crescita di giganti come Google, Facebook e Apple è avvenuto anche grazie ad acquisizioni europee. Sarebbe possibile porre un limite a queste pratiche espansioniste? Vi sarebbero sicuramente opportunità per l’Europa, che potrebbe così meglio difendere la propria sovranità tecnologica, ma anche controindicazioni. Impedire sistematicamente alle start-up europee di successo di essere acquisite da americani potrebbe ancor più incoraggiare la fuga di cervelli e investimenti verso zone dove le acquisizioni possono aver luogo. Pertanto, una politica antitrust più attenta dovrebbe essere accompagnata dalla creazione di un nuovo sistema europeo di venture capital che consenta a start-up ed innovatori europei di trovare un acquirente senza dover lasciare il vecchio continente;
  • una politica degli appalti orientata agli operatori europei. In tempi di “America First”, bisognerebbe pensare di dare qualche priorità alle aziende europee. Talvolta i committenti pubblici europei ignorano le start-up europee perché considerate meno sicure, al grido rassicurante di “Nessuno è mai stato licenziato per aver ordinato IBM o Microsoft”. Al contrario, riservare una parte degli appalti pubblici europei e nazionali a start-up nostrane permetterebbe a tali imprese di farsi conoscere ed assumere quella notorietà che solo manca loro per competere con i colossi extraeuropei. Ma ci vorrà più impegno e coraggio da parte dei committenti pubblici europei.

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