Il dibattito sul fair share è sicuramente l’hype delle telecomunicazioni del 2023, sia a livello europeo che nazionale, ma non sappiamo fino a quando durerà e se le aspettative dei proponenti saranno soddisfatte. Il tema è divenuto una priorità assoluta per le principali telco europee, assumendo un ruolo di grande rilievo nell’agenda politica della Commissione europea gestita, per quanto riguarda il digitale, dal francese Breton, così creando una incredibile massa di lavoro per consulenti, lobbisti ed organizzatori di conferenze.
Ma dopo oltre un anno di discussioni, position paper ed eventi, il bilancio non può certo dirsi positivo.
Fair share, si allarga il fronte degli scettici
Il fronte dei sostenitori non si è affatto allargato, mentre invece è cresciuto quello degli scettici, se non addirittura dei contrari, dando vita ad un variegato raggruppamento ostile al fair share che, come si vedrà nel prosieguo, comprende ben più degli OTT e dei suoi simpatizzanti tradizionali. In questo scenario grigio sembra fare eccezione solo la posizione del Parlamento europeo, poiché l’assemblea, probabilmente anche in virtù dell’attivismo di qualche bravo lobbista, lo scorso 15 giugno ha inserito una frase favorevole al fair share in un documento che tuttavia si occupava di tutt’altro (il Report annuale sulla concorrenza). Si tratta peraltro di un’apertura mitigata dal riferimento a concorrenza e net neutrality. Sarebbe però azzardato affermare che il Parlamento europeo si sia già schierato nel dibattito in corso: è più ragionevole invece supporre che la maggioranza dei deputati non abbia sufficientemente valutato l’estemporaneo paragrafo e che la partita sul fair share in seno all’assemblea europea debba ancora partire, se mai partirà.
Fair share, anche gli avversari storici delle Big Tech lo osteggiano
È di grande rilevanza il fatto che molti soggetti, i quali normalmente non avrebbero interesse a difendere le Big Tech, si siano schierati contro il fair share, o quanto meno lo considerino un tema problematico o affrettato. Tra questi vale la pena ricordare numerosi governi europei (con Germania, Olanda, Danimarca ed Austria tra i più ostili), il Berec, le televisioni commerciali, le associazioni della comunità tecniche Internet (come ISOC e RIPE), persino organizzazioni telecom (come MVNO Europe, EuroIX, e varie associazioni di operatori alternativi), le associazioni dei diritti civili ed i consumatori. Si tratta di soggetti che normalmente criticano Google & Co per motivi diversi: sovranità digitale, privacy, diritti dei consumatori, concorrenza. Il fatto che costoro, pur così diversi, si siano invece schierati contro il fair share, ed indirettamente a favore dei grandi OTT, è significativo e bisognerebbe rifletterci sopra. Tali soggetti non sembrano interessati a partecipare al dibattito posizionandosi a favore o contro le telco o le Big Tech, semmai essi appaiono preoccupati circa le potenziali conseguenze negative che potrebbero derivare da improvvidi ed inutili interventi regolatori.
Il punto di forza del fair share: il commissario Breton
In altre parole, non solo il dibattito sul fair share non ha sfondato, ma rischia persino di complicarsi man mano che prevarranno le voci di coloro che chiedono di analizzarne più compiutamente i presupposti. Tutto ciò non sembra però aver scalfito la fiducia dei proponenti, i quali probabilmente contano molto sull’impegno profuso dal commissario europeo Breton, schieratissimo a favore del fair share dalla prima ora. L’attivismo di Breton è il vero punto di forza del fair share, ma anche un motivo di imbarazzo, perché sia le origini manageriali di Breton (Orange, una delle telco più impegnate nel dibattito), sia le sue estemporanee uscite pubbliche a favore dell’iniziativa, tramite social o interviste, hanno un po’ adombrato la terzietà che ci si aspetterebbe dall’istituzione che promuove una riforma così delicata.
Le analogie con la direttiva copyright
L’atteggiamento fiducioso dei sostenitori del fair share è inoltre rafforzato dalla stampa generalista, che sostiene questo intervento regolatorio riportandolo peraltro in modo superficiale, come se fosse una sorta di wrestling tra grandi Tech e piccoli operatori telecom. Questa semplificazione manichea (Google & Co usano le nostre reti!) riflette un tema altrettanto caro agli editori, quello cioè di come addebitare alle piattaforme online le difficoltà di adattamento ad Internet di parte dell’editoria (Google & Co usano i nostri contenuti!). In effetti, l’Internet tax ricorda molto la “link tax” previsto all’art. 15 della Direttiva 2019/790, in base alla quale le piattaforme online devono pagare un compenso agli editori per remunerarli dell’uso (anche nella forma della semplice indicizzazione) di semplici estratti di contenuti giornalistici. La dinamica del dibattito presenta analogie tra entrambi i campi, in particolare nel fatto che il soggetto che dovrebbe pagare (l’OTT) ritiene il balzello ingiusto in quanto i benefici forniti dalle piattaforme sarebbero prevalenti rispetto all’ipotetico uso di diritti altrui: nel caso del copyright, alla richiesta di equo compenso degli editori si contrappone l’argomento degli OTT secondo cui le loro piattaforme aiuterebbero a distribuire i contenuti giornalistici, senza alcuna appropriazione parassitaria; nel caso del fair share, alla richiesta di Internet tax delle telco gli OTT controbattono che sono proprio i loro servizi a promuovere il take-up delle reti broadband, e quindi a dare un senso agli investimenti delle telco. E’ quindi lecito supporre che i proponenti del fair share si siano ispirati proprio alla recente direttiva sul copyright nell’immaginare il funzionamento di una sorta di Internet tax, ma a mio parere ne hanno sottovalutato l’impatto: mentre nel caso delle notizie online siamo di fronte ad un segmento economicamente poco significativo del settore digitale (benché rilevante dal punto di vista del pluralismo), con il fair share si rischia invece di portare sconquasso al funzionamento delle reti digitali veri e proprie.
Il ruolo del Telecom Act
Ad ogni modo, il giorno del redde rationem si avvicina. Per concretizzare il proprio progetto, il commissario Breton dovrebbe depositare una proposta legislativa quanto prima, poiché il mandato di questa Commissione si avvia verso la scadenza: le elezioni europee sono previste per giugno 2024 e vige la regola del semestre bianco secondo cui ad un certo momento non possono essere più depositate proposte legislative. Per via di questo timing ristretto, Breton ha annunciato (in modo peraltro irrituale, cioè con una intervista ad un giornale nazionale) una nuova iniziativa legislativa, denominata “Telecom Act”, da presentarsi ad ottobre 2024, quindi quasi al fotofinish. Stando all’annuncio dello stesso Breton, la proposta intenderebbe imbastire una nuova politica industriale europea delle telecom mirante ad un nuovo assetto strutturale e normativo. Il fair share non vi è ancora menzionato esplicitamente, ma il sospetto è che ci entrerà, magari in modo non plateale, ad esempio all’interno di un noioso ed anonimo capitolo dedicato all’interconnessione. Ci si potrebbe persino aspettare una mera clausola di principio, lasciando poi l’attuazione vera e propria della Internet tax alla Commissione stessa sulla base delle sue competenze secondarie (atti delegati o implementativi), che gli uffici di Breton potrebbero adottare senza il controllo ordinario di Consiglio e Parlamento. Tanto machiavellismo sembra inevitabile a meno che Breton non riesca a capovolgere il fronte negativo emerso nel Consiglio Telecom del 2 giugno a Lussemburgo, nel corso del quale almeno 19 paesi europei si sono dimostrati contrari o quanto meno perplessi sul fair share.
Insomma, è legittimo il sospetto il Telecom Act possa strumentalmente servire per far passare il fair share in modo discreto, confondendolo in mezzo ad altre proposte più o meno suadenti da usare come merci di scambio con la Internet tax: il sempiterno mercato unico delle telecom, gli aiuti alla ricerca, gli operatori paneuropei ecc.. Bastone e carota insomma.
Le alternative: dall’uso di software codec all’edge computing
A dispetto delle motivazioni di Breton, del fair share sappiamo ormai abbastanza per suggerire invece prudenza. Nonostante numerosi dibattiti e studi, l’idea resta fortemente controversa poiché i principali presupposti su cui si fonda appaiono opinabili e contraddittori non appena ci si distacca dagli slogan politici. Ci riferiamo, ad esempio, alla cosiddetta “crisi” delle telecom, al cosiddetto “uso” delle reti da parte degli OTT, alla legittimità di una ulteriore remunerazione delle reti a carico degli OTT, ai costi solo marginali dovuti all’incremento del traffico, al reale tasso di riempimento delle reti, alla reale situazione degli investimenti in fibra o 5G in Europa, alla precisa utilizzazione dei proventi della Internet tax, per finire con l’impatto su concorrenza e net neutrality.
Vi sono inoltre dei temi che andrebbero maggiormente analizzati in quanto potrebbero giovare al mercato molto più di un sussidio regolamentato. Ad esempio, occorrerebbe valutare come promuovere se non addirittura imporre software codec più efficienti di quelli attuali, in modo da ridurre il peso del traffico Internet nelle reti di trasporto ed alleggerire i costi delle telco. Inoltre, piuttosto che promuovere l’antagonismo tra i player del settore, sarebbe più opportuno spingerli a cooperare negli investimenti, ad esempio promuovendo l’edge computing da cui entrambi gli schieramenti, OTT e telco, potrebbero trarre sia guadagni che risparmi.
Tutti aspetti che gli spettatori neutrali del dibattito considerano degni di ulteriore analisi, e motivo per non accelerare una riforma legislativa così delicata ed impattante.