L’attuale esplosione dei servizi video on line, in particolare il video on demand (oltre 3000 servizi nella sola Europa secondo un recente studio della Commissione), è frutto principalmente di due fattori.
Il primo è la crescente penetrazione di nuovi servizi e dispositivi in grado di veicolare contenuti video a richiesta e di elevata qualità, che hanno determinato un drammatico aumento del traffico sulle reti IP. Tale tendenza non accenna a rallentare. Smart TV, game console, tablet e altri apparati mobili alimenteranno la crescita di tale mercato. L’imminente commercializzazione su vasta scala di televisori Ultra HDTV (4k) rafforzerà tali tendenze.
In definitiva, se il traffico internet è destinato a crescere, a ritmi sostenuti, ciò sarà determinato principalmente dal video. Anche in Europa occidentale, secondo Cisco, il traffico internet rappresenta oltre il 50% del traffico complessivo già nel 2013. Inoltre, sempre in Europa Occidentale, il traffico video su reti mobili sarà cresciuto di quasi 20 volte tra il 2011 e il 2016, a un tasso medio annuo dell’80%, costituendo già a partire dal 2015 oltre il 50% del traffico dati mobile.
L’altro elemento è la trasformazione dell’industria cinematografica, soprattutto a livello distributivo, con la crisi dell’home video fisico (modello Blockbuster) e l’emergere di nuovi agguerriti player come Netflix e Amazon. Ciò ha aperto la strada a nuove opportunità nell’offerta di contenuti video online, collegate alla distribuzione legale a pagamento attraverso noleggio o vendita di film e di altri prodotti audiovisivi (serie TV, documentari). Si tratta di un fenomeno simile a quanto accaduto all’industria discografica con l’avvento di i-Tunes.
La tipologia dei servizi prescelta è molto diversa dal modello bundle (basic+premium) ad alto costo (dai 30-40 euro in su al mese) dei tradizionali broadcaster pay-TV europei e si basa sull’offerta a richiesta, il cosiddetto Video on Demand (VOD), prevalentemente in modalità pay-per-view o transactional (TVOD) o per abbonamento (SVOD), anche se alcuni servizi poggiano su sistemi di remunerazione basati solo sulla pubblicità (AVOD) o misti (Freemium) .
Questi nuovi attori fanno leva sulla massa critica di utenti raggiunta grazie all’attività originaria su internet e beneficiano così di esternalità di rete per espandersi nel nuovo mondo connesso dei contenuti. iTunes ha iniziato a rivolgersi agli amanti della musica, che la ascoltano tramite dispositivi Apple, e oggi è diventato uno dei negozi di contenuti digitali più visitato al mondo.
Amazon pratica e-commerce, vendendo inizialmente libri, ma dal 2008 ha iniziato a offrire film e video in streaming sotto il marchio Amazon Instant Video Prime; inoltre, agli utenti del programma di fidelizzazione Amazon Prime garantisce la spedizione gratuita degli articoli acquistati online dietro pagamento di un canone di abbonamento annuale di $79.
La stessa Netflix distribuisce il proprio servizio Watch Instantly a numerosissimi dispositivi, tra cui Xbox 360, Nintendo Wii, PS3 della Sony, lettori Blu-ray e televisori Sony, LG, Panasonic, Insigna, Philips, Pioneer, Samsung, Toshiba, Yamaha, Vizio, l’iPhone, l’iPad, etc.
Ciò che distingue al proprio interno questi operatori è soprattutto il modello di business, nel quale sembra emergere l’abbonamento SVOD, a costi molto bassi (dai 7 ai 10 euro mensili), ritenuto dal consumatore più conveniente ed efficiente dell’acquisto del singolo contenuto, spesso a impulso, del TVOD.
Se dunque contenuti legali e modelli di business cominciano a delinearsi, la loro possibilità di competere soprattutto in Europa con gli operatori pay consolidati e sottrarre loro abbonati – il cosiddetto cord cutting – è condizionato all’accesso illimitato ai contenuti premium, che spesso sono controllati dai broadcaster e che, in tutti i casi, si rivelano troppo costosi (minimi garantiti o margini bassi sul revenue sharing). Alcuni di loro stanno quindi puntando sulla produzione di contenuti originali (vedi House of Cards di Netflix), anche se i loro investimenti, pur sempre significativi, costituiscono ancora una percentuale bassa sui ricavi, soprattutto in confronto alla capacità di spesa dei broadcaster.
Se guardiamo a un processo che negli USA si è naturalmente manifestato con molto anticipo, va sottolineato come l’anno chiave del cambiamento sia stato il 2011, quando i ricavi da SVOD, che valevano 4,3 milioni nel 2010, sono cresciuti di oltre il 10.000%, raggiungendo $454 milioni. Di conseguenza, lo SVOD è diventato dal 2011 il segmento più importante del mercato del video on demand, superando il transactional VOD (quello di iTunes, che si fa pagare il noleggio di ogni singolo film).
Due le motivazioni di questo successo: prima tra tutte, la decisone di Netflix di iniziare a farsi pagare direttamente l’accesso online e, in secondo luogo, la crescita degli utenti che usano la banda larga. Si è trattato di un cambiamento epocale nel modo in cui i consumatori pagano per fruire di film online.
Negli USA la popolarità dei servizi SVOD ha ormai raggiunto la pay-TV, i cui abbonati sono diminuiti negli ultimi due anni. Si tratta di un abbandono della pay-TV tradizionale legato al cord cutting, mentre i servizi SVOD tentano di imporsi al pari di canali premium, con contenuti originali ed esclusive.
In questo senso la grande attrattività delle serie rispetto ai film e gli investimenti in produzioni proprie (vedi serie di successo internazionale come House of Cards) e l’ingresso nella produzione e distribuzione di programmi in Ultra HD segnano un ulteriore step nel confronto diretto e serrato con gli operatori pay, i quali a loro volta rispondono con accordi, fusioni e acquisizioni miliardarie, quali quelle tra Comcast e Warner e AT&T e Direct TV.
L’evoluzione del mercato verso il modello SVOD pone automaticamente Netflix in posizione dominante. Netflix è il leader di mercato, con 30 milioni di abbonati, seguito, a distanza, da Hulu e Amazon, considerati anche come servizi secondari, in aggiunta a Netflix.
Netflix sta cercando ora di trasferire questo suo potere di mercato anche in Europa, dove la competizione con Amazon e con i broadcaster appare oltremodo accesa e destinata ad allargarsi nei prossimi mesi. Basti considerare che in Europa Netflix, a due anni dal lancio, rappresenta oltre il 20% del traffico downstream su alcune reti nel Regno Unito. Netflix ha impiegato quasi quattro anni per raggiungere la stessa proporzione di traffico negli Stati Uniti.
In Europa, a fine 2013, lo streaming audio-video è la prima categoria di traffico. In down streaming, rappresenta oltre il 47% in orario di punta, +7,4% rispetto al 40% del primo semestre dell’anno. Tuttavia questa percentuale varia nei diversi paesi, tra il 35% fino a oltre il 60% del traffico downstream. Questa fluttuazione è dovuta principalmente alla presenza di servizi video OTT nei vari mercati. I paesi in cui sono operativi Netflix e Lovefilm/Amazon hanno quote maggiori di traffico legato allo streaming audio e video.
Di fronte alla sfida dei giganti del web la questione chiave per l’industria dei contenuti europea, e per i broadcaster in particolare, che detengono le principali leve economiche e le maggiori quote di mercato in Europa nel settore audiovisivo, è di come impedire il ripetersi dell’effetto distruttivo che si è verificato in altri settori dei media (vedi discografia ed editoria) e trovare dunque il modo migliore per combattere i nuovi entranti nell’ambito del proprio territorio.
I broadcaster pay-TV, maggiormente soggetti alla competizione sui prezzi, stanno adottando una duplice strategia. La prima, utilizzata in una prima fase in maniera prevalentemente difensiva, si basa sullo sviluppo della social TV e degli schermi secondari. La monetizzazione non è molto chiara perché inizialmente – vedi Sky Go e Sky On Demand – i servizi vengono offerti ai soli abbonati alla pay-TV, gratuitamente, allo scopo di fidelizzarli e ridurre il tasso di abbandono (cord cutting).
La monetizzazione tramite pubblicità al contempo non è sostenibile, anche perchè la correlazione tra attività sui social network, ascolti e ricavi da pubblicità tradizionale si è dimostrata finora più complicata del previsto.
Una seconda strategia, ben più aggressiva e rischiosa, consiste nell’offrire servizi “stand alone”, che competono direttamente con Netflix e soci, svincolando questi contenuti (per lo più film e serie) dal servizio principale dell’operatore, mettendolo quindi a disposizione senza dover sottoscrivere un abbonamento bundle. Chi ha intrapreso quest’avventura lo ha fatto con cautela: tanto BSkyB in Uk con Now TV e più di recente in Italia con Sky online, quanto MTG, con Viaplay, hanno mantenuto inizialmente i prezzi del servizio OTT a un prezzo intermedio rispetto all’accesso agli stessi contenuti sulla piattaforma principale, in modo da non cannibalizzare eccessivamente gli abbonamenti tradizionali, assai più redditizi.
Questa tipologia di servizi, ormai presenti in tutte le esperienze nazionali, si rivolge a quella parte del pubblico tuttora maggioritario, che non vuole vincolarsi con un abbonamento, ma desidera un accesso meno costoso a contenuti selezionati d’intrattenimento.
Per gli operatori dunque, ormai consapevoli della saturazione del mercato broadcast, la sfida si gioca dunque sulla qualità dei contenuti messi a disposizione, di cui dispongono ancora di ampie esclusive, e della necessità di tenere un prezzo competitivo con gli operatori di VOD web nativi e, al contempo, distinto su tutte le piattaforme. Ciò per valorizzare al massimo la propria offerta e i contenuti premium di cui dispongono, evitando di cannibalizzare il proprio core business, così da scongiurare il rischio che gli abbonati abbandonino la piattaforma principale per il servizio OTT del rivale (cord cutting) o perché il proprio servizio OTT è più conveniente rispetto a quello broadcast (cord shaving).
Trasferito alla situazione italiana, i broadcaster nazionali (Sky e Mediaset in primis), ma anche i servizi OTT puri come Chili e TIM Vision, possono ancora trarre vantaggio dall’assenza di grossi competitor internazionali, Netflix in primis, sia per l’incertezza del quadro economico, sia per l’ancora scarsa presenza di banda larga, per mettere a punto strategie d’ingresso sul mercato, senza scontare i ritardi verificatisi in altre realtà (USA e Regno Unito su tutti). I tempi però sono stretti e tra qualche mese il contesto competitivo rischia di essere meno stabile e comunque radicalmente diverso da quello attuale.