In una sua recente intervista, Linda Lanzillotta interviene sul tema del federalismo digitale auspicando una significativa correzione di rotta volta a rimettere ordine in un’architettura formalmente semplice così come normata in Costituzione all’art. 117 ma – sostanzialmente – resa complicata da una decennale storia di controversie e di “incomprensioni”.
Il tema è centrale: intorno ad esso girano i destini della digitalizzazione della pubblica amministrazione, ma anche quelli – decisamente più significativi anche in termini di potenziale crescita economica – della definizione delle politiche digitali del Paese.
Giustamente la Vicepresidente del Senato addebita alle Regioni (ma il discorso vale anche per il sistema delle autonomie locali) una tendenza eccessiva alla duplicazione di progetti, con conseguenze ovvie sia in termini di utilizzo razionale delle risorse che di mancanza quasi assoluta di interoperabilità.
Soprattutto, il federalismo digitale così come interpretato ad oggi non è in grado di garantire una uniformità di risultati a livello nazionale, con evidenti impatti in termini di gap rispetto agli obiettivi comunitari.
Torna alla mente una battuta, fatta a suo tempo da un “intemperante” frequentatore della Conferenza Stato-Regioni: “Questo è il Titolo Quinto: chi mette i soldi ha vinto”.
Perché, a ben vedere, il problema è proprio questo. In questi ultimi quindici anni le regioni e le autonomie locali hanno potuto utilizzare quantità industriali di denaro (fondi europei e statali) per dar vita a centinaia di progetti quasi tutti ineccepibili sotto il profilo della qualità di esecuzione ma assai raramente caratterizzati da una visione sistemica capace di valicare i confini amministrativi di pertinenza del singolo ente promotore. Parliamo di cifre che si avvicinano alla dozzina di miliardi di Euro in 15 anni, per intenderci. A livello centrale, nello stesso periodo, sono girati gli spiccioli.
Il tema, sia ben chiaro, non è quello di una mera attribuzione di sovranità o di un tentativo di limitazione delle autonomie regionali e comunali. Molto più semplicemente, si tratta di cominciare finalmente a ragionare in un’ottica di sistema che veda al centro il raggiungimento di un obiettivo nazionale piuttosto che la salvaguardia del proprio orto.
E non si vede davvero come il singolo cittadino italiano possa trarre un beneficio da decine di sistemi informativi per il bollo auto o da una ventina di progetti diversi per il fascicolo sanitario elettronico, tanto per fare due esempi. Così come non si capisce perché le PMI italiane debbano avere incentivi alla digitalizzazione e finanziamenti differenti a seconda di dove abbiano la loro sede legale.
Peraltro, per onestà intellettuale va riconosciuto alle regioni e alle autonomie locali di essersi mosse lungo almeno 8 anni di clamorosa assenza di una regia centrale: abbiamo avuto un CNIPA sostanzialmente erogatore di cofinanziamenti e controllore dell’avanzamento progettuale, poi un DigitPA che verrà ricordato nei tempi più che altro per il suo trasloco da Via Isonzo a Viale Marx, per poi arrivare a un’AgID ancora in cerca di un assetto dopo l’estenuante ping-pong di statuti e bilanci tra i palazzi del centro di Roma.
Soprattutto, abbiamo patito e continuiamo a patire l’assenza di una vera visione in materia di politiche digitali.
“Politiche”, si badi bene.
E qui torna in campo la primazia della politica, la quale deve appropriarsi del tema e mettersi al lavoro.
Perché, alla fine della fiera, qui non è tanto un discorso di tecnologia più o meno all’ultimo grido quanto piuttosto di sviluppo economico.
L’industria ICT è pronta a fare la sua parte. E qualche decina di migliaia di potenziali occupati non aspettano altro.
Una prima occasione per aprire un dibattito tra istituzioni, politica e impresa è rappresentato dall’incontro a inviti organizzato da Netics e Confindustria Digitale a Venezia, il 7 luglio, nel quadro dei collateral events collegati a “Digital Venice”.