Quale è il comune italiano con la più alta percentuale di copertura in fibra[1]? Molti risponderebbero di getto Milano, ma sbaglierebbero, anche se di poco: è Bresso, in provincia di Milano, che può garantire la fibra al 97% della sua popolazione, seguito da Bollate (94%) e Cologno Monzese (92%), sempre in provincia di Milano. Al di fuori della cintura milanese, il comune più fortunato è Nichelino, con una copertura del 91%.
Quale è la regione con la migliore copertura in fibra? Sarebbe naturale per molti pensare alla Lombardia, ma cadrebbero in errore: è la Liguria, la cui popolazione è coperta al 45%, seguita dalla Sicilia (34%) e dalla Puglia (31%). La Lombardia è soltanto quarta con il 31%.
Ribaltiamo il problema. Quale è l’area del Paese messa peggio per la copertura in fibra? Può venire spontaneo pensare subito al Sud, ma ancora una volta sarebbe una risposta sbagliata: è il Nord-Est, la parte trainante dell’economia italiana, coperto appena per il 20%, seguito dal Sud (22%) e dal Centro (23%). Il Nord-Ovest (31%) e le Isole (30%), al contrario, sono le aree migliori.
Gli ultimi dati
L’Italia dell’ultrabroadband si sta finalmente muovendo dopo tanti anni e la prova è che non sono poche le sorprese a cui si va incontro analizzando gli ultimi dati della mappa italiana del broadband pubblicata dall’Agcom. Nel complesso, in Italia il 25% della popolazione ha un collegamento a più di 100 Mbit/s anche se soltanto il 2% dei numeri civici ha un collegamento FTTH. Non sono tanti ma è una situazione molto migliore rispetto a quella che ci vedeva nel 2014 ultimi in Europa per copertura NGA complessiva, dietro la Grecia. Alla fine del 2016 avevamo recuperato ben 6 posizioni con un’accelerazione che lascia ben sperare in altre buone notizie per la fine di quest’anno. Oggi si stima una copertura banda ultra larga sul 70% delle popolazione.
Qualche volta, nel diluvio di numeri e di sigle, ci si chiede se una velocità superiore a 100 Mbit/s sia sinonimo o meno di collegamento in fibra. In proposito, quest’anno ha portato una grande novità. Dal 6 dicembre è in vigore il D.L. 148/2017 che, tra le varie disposizioni, oltre a cancellare le bollette a 28 giorni, dà mandato all’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni di definire entro sessanta giorni “le caratteristiche tecniche e le corrispondenti denominazioni delle diverse tipologie di infrastruttura fisica” per le telecomunicazioni, ma con il chiaro vincolo che sarà definibile “infrastruttura in fibra ottica completa” soltanto “l’infrastruttura che assicura il collegamento in fibra fino all’unità immobiliare del cliente” ovvero FTTH. In questo modo si chiariranno anche alcune incomprensioni nella comunicazione delle offerte da parte degli operatori di telecomunicazioni e, per il prossimo anno, si metteranno le basi per giocare la vera partita della copertura del Paese in fibra.
Chiusi i primi due bandi, e presto anche il terzo, il Governo ha fatto la sua parte. Vinti i primi due bandi, Open Fiber è già partita a fare la sua di parte: entro il 2022 dovrà coprire 7,7 milioni di unità immobiliari in FTTH e 1,5 milioni in fixed wireless access. Un grosso passo avanti in un Paese in cui su circa 50 milioni di numeri civici, appena un milione può contare sulla disponibilità di un collegamento FTTH.
Scenario futuro
Viene quindi spontaneo chiedersi cosa aspettarsi per il futuro. L’obiettivo dell’Unione Europea entro il 2020 è di dare almeno 30 Mbit/s a tutti e almeno 100 Mbit/s al 50% degli europei. Con qualche sforzo ulteriore, grazie alle iniziative degli ultimi due governi, entrambi gli obiettivi dovrebbero essere centrati. Ma nel corso di quest’anno la UE ha allungato il suo orizzonte di programmazione e ha iniziato a parlare di una Gigabit society da realizzare entro il 2025, con tutte le scuole, gli hub di comunicazione, le principali aziende e servizi pubblici collegati ad almeno 1 Gbit/s sia in download sia in upload mentre tutte le abitazioni sono collegate almeno a 100 Mbit/s con la possibilità di un upgrade a 1 Gbit/s. L’obiettivo diventa ben più difficile.
Paradossalmente, la sfida non è più tanto infrastrutturale, che è responsabilità anche del Governo, ma di marketing e tecnologica, che è soprattutto responsabilità delle aziende di telecomunicazioni. In Italia il passaggio da ADSL a FTTC e FTTH è avvenuto, quasi senza nessun aumento dell’ARPU per utente, grazie a sconti e promozioni. Nell’International Communications Market Report di Ofcom, pubblicato appena ieri, nell’indagine relativa ai prezzi della connessione ad Internet, l’Italia è il paese con quelli più bassi tra UK, Francia, USA, Germania, Spagna ma, soprattutto, il nostro Paese è in assoluto quello con i prezzi più bassi per la connessione ultrabroadband (300 Mbit/s), quasi allo stesso livello dell’ADSL che, paradossalmente, in alcune aree italiane è addirittura più cara della fibra nei principali centri urbani. La leva del prezzo, finora la più utilizzata, ha drogato il mercato senza riuscire a svilupparlo, portando i sottoscrittori di linee a più di 30 Mbit/s dal 3% del 2011 al 12% del 2016 mentre nello stesso periodo la Francia è passata dal 3% al 18% e la Spagna dal 9% al 49%. Nella prospettiva dell’arrivo il prossimo anno sul mercato della telefonia italiano di Xavier Niel, ben noto tagliatore di prezzi, soltanto un ulteriore taglio dato di netto al costo della connettività potrebbe dare un ulteriore aiuto. Ma sarebbe una mossa sbagliata non tanto per chi la mettesse in pratica – un risultato lo da sempre – ma rispetto al Paese: non abbiamo bisogno di connessioni ancora più economiche quanto migliori e con più utilizzatori.
Parallelamente, un’altra ricerca, ben più ampia, conclusa a ottobre di quest’anno da BDRC Continental e Cable.co.uk analizzando più di 3.300 offerte, conferma questo dato e restituisce l’immagine di un’Italia con una connessione tipica lenta e a buon mercato: al 31° posto tra i paesi con la connessione Internet meno cara su 172 paesi analizzati e al 45° posto per velocità media dichiarata in offerta. Per cronaca, la velocità di connessione reale, rilevata da Akamai, ci vede al 61° posto al mondo su 149 paesi analizzati per velocità media reale, con un miglioramento nell’ultimo anno del 13% (+15% a livello globale) ma al 74° per velocità media di picco, che nello stesso periodo ha registrato un ben più netto miglioramento del 40% (+28% a livello globale). In sintesi, un miglioramento tangibile ma ancora limitato a pochi.
In questo scenario, anche l’utilizzo del voucher per spingere ulteriormente le sottoscrizioni, si potrebbe rivelare addirittura controproducente, risolvendosi in soldi spesi con risultati modesti. È per natura un’arma finale, del tipo con un solo colpo in canna. Non va sprecata. Sarebbe meglio attendere, almeno finché le aziende di telecomunicazioni, da sole o con chi, come la RAI dovrebbe preoccuparsi della crescita culturale degli italiani, non ricomincino a parlare all’utente medio per spiegargli in modo credibile e comprensibile perché – e con che cosa – tecnologicamente è opportuno per lui avere a casa o in azienda una connessione Internet più veloce. Le telecomunicazioni sono un business tecnologico, non può mai essere dimenticato. Finanza e marketing sono importanti ma nelle telecomunicazioni le leve più potenti per cambiare i risultati finanziari o di mercato sono sempre tecnologiche. Chi guarda agli standard tecnologici e li ritiene una scelta tecnologica confonde l’alveo del fiume con il fiume: arriverà da qualche parte ma nessuno potrà dire in che condizioni sarà quando ci giungerà.
L’anno prossimo sarà anche l’anno in cui si definiranno i tempi e le modalità con cui partirà in Italia il 5G, il più effimero ma anche il più rivoluzionario degli standard tecnologici. Il suo sviluppo è legato alla capillarità della diffusione della fibra ma, allo stesso tempo, sarà la vera rete in competizione con la rete in fibra. Pensarne la realizzazione come un insieme di scelte su frequenze, tempistiche e aste è un approccio pericolosamente riduzionista, soprattutto se dovesse realizzarsi lo scorporo della rete.
È un tema di vecchia data, ma tutto lascia pensare che questa prospettiva sia ormai vicina. In proposito, se alla fine dovesse realizzarsi per davvero, è poco probabile che si riesca a definirla entro il 2018. È un tema di enorme complessità tecnica, oltre che finanziaria e amministrativa. Il rischio che si corre è che, se non si prevedono degli accordi preliminari per gestire le contingenze della situazione interlocutoria, tutto il piano in fibra del Paese si fermi fino alla definizione di un’intesa, ritardando o rendendo impossibile la realizzazione del piano del Governo. Sarebbe paradossale. Al contrario, sarebbe sensato concludere subito un accordo su tutto ciò che non deve essere interrotto durante la fase interlocutoria ma anche un accordo sui principi da rispecchiare negli accordi di dettaglio della separazione della rete. Sarebbe una prova di buona volontà delle parti ma soprattutto sarebbe bene nell’interesse del Paese.
Un’ultima riflessione. Le telecomunicazioni – soprattutto quelle italiane – sono una matassa ingarbugliata perché tutti i fili si tengono insieme. Il 2018 sarà l’anno in cui tutti i nodi delle telecomunicazioni nostrane arriveranno al pettine. Cercare di dipanarli uno alla volta potrebbe sembrare una scelta di buon senso, ma solo apparentemente. «Tutto dovrebbe essere reso il più semplice possibile, ma non più semplice» come diceva Einstein. In questo particolare caso, semplificare finirebbe per ritorcersi contro chi tentasse di farlo. Uno sforzo supplementare, mettendo tutti i problemi sul tavolo per cercare una soluzione ragionevole a tutte le questioni con tutti gli attori allo stesso tempo, potrebbe sembrare, a seconda dei punti di vista, un compito ostico o una fatica improba. Ma sono sicuro che molti, sapendo quel che ne potrebbe finalmente venire, sarebbero disposti a chiederlo come unico regalo di Natale nella lettera da lasciare sotto l’albero di quest’anno. Auguri a tutti.