Riprendo le parole e i ragionamenti di Roberto Moriondo, pubblicati qui nei giorni scorsi, per tornare sul tema della spesa ICT della pubblica amministrazione italiana.
Lo faccio partendo dai dati raccolti, come ogni anno a partire dal 2006, dall’Osservatorio Netics. Parliamo di costi esterni (acquisto di beni e servizi ICT) da parte della PA nel suo insieme: centrale, regionale, locale, sanità, scuola e università. Considerando anche l’IVA (che rappresenta, notoriamente, un costo indeducibile da parte della PA), stiamo parlando – per il 2013 – di quasi 7,5 miliardi di Euro.
Una cifra che, sommata ai costi interni per la gestione del personale addetto a funzioni e mansioni ICT, diventa di pochissimo superiore ai 9 miliardi di Euro. E fin qui, nessuna novità. Sono numeri noti da tempo, anche perché (purtroppo!) non si muovono da ormai diversi anni. Calma piatta.
Sono pochi? Sono tanti? Proviamo a ragionarci su.
Sono pochi se li paragoniamo alla media dei Paesi OCSE, dove però a una maggiore spesa corrisponde anche una decisamente maggiore quantità di outcomes in termini di servizi digitalizzati. Sono tanti se li rapportiamo ai risultati raggiunti. Con due “grandi” eccezioni (Agenzia delle Entrate e INPS) e con qualche piccola eccezione a livello di singole Regioni o di singoli territori.
In sintesi: spendiamo poco, e tutto sommato anche male. Anche i trend per il 2014 e il 2015 non promettono granché, con la sola eccezione della Sanità dove gli investimenti sono in molti casi (prevalentemente al Sud) considerevoli.
Scendendo nei dettagli, a un calo previsto complessivo intorno al 2,4 – 2,6 % (ultimi aggiornamenti dopo la survey di settembre) corrisponde – paradossalmente – un aumento di quantità di beni e servizi acquistati: in pratica, gli enti comprano “più cose” (soprattutto hardware e licenze software) con gli stessi budget degli anni precedenti (al netto del taglio “canonico” di spending review sulle OpEx).
Morale: prezzi in caduta libera, e idem per i margini.
Continuano a imperversare, checché se ne dica nei convegni, le gare al massimo ribasso o comunque procedure di gara che finiscono inevitabilmente per premiare i ribassi a tutto discapito della qualità. Morale della morale: ci si fa male tutti quanti. Chi vende, perché non riesce a garantirsi una profittabilità decorosa; chi compra, perché finisce per comprare “merce scadente”.
Ulteriore dettaglio: si continuano a comprare, a centinaia di migliaia, giornate/uomo per sviluppare e/o manutenere software rigorosamente custom. Anche laddove non ha più senso pensare al software custom. Risultato: nessuna azienda fornitrice è messa in condizione di capitalizzare esperienze “rivendibili altrove”. Puro body rental, in perfetto stile anni ’70.
Un “non mercato”, diciamo.
Moriondo, giustamente, sostiene che i vendor non riescono a ragionare in termini strategici, presi come sono dal concatenarsi delle chiusure di quarter. Non esiste più (e lo si percepisce benissimo anche considerando l’inesistenza dei budget) una funzione di marketing e di business development capace di aprire un dialogo costruttivo col Cliente. Si va a trovarlo e gli si cerca di vendere quanta più roba possibile.
Tutto vero. Ma è anche vero che la PA italiana continua a non essere capace di comprare. E non è colpa dei CIO, badate bene. Ma non è neppure colpa delle norme, del codice degli appalti. A saperle usare, le norme per comprare bene ci sono tutte. Quella che manca è la prassi. I precedenti, i contratti da “copiaincollare”. Imperversa la paura nei confronti delle autorità di controllo.
E qui si apre un discorso interessante: tutto quello che Consip potrebbe fare, oltre che “fare gare”, per aiutare gli enti della PA a comprare meglio. Dove “comprare meglio” non necessariamente significa “spendere meno”. E questo è un primo tema. Ma poi Moriondo dice un’altra cosa sensatissima: “Attenzione, cari vendor: non vedeteci soltanto come potenziali clienti. La PA (e soprattutto le Regioni, in questo caso) può essere un vostro spettacolare alleato nel generare domanda di ICT al di fuori del suo perimetro.”
E anche questo, è un ragionamento che molti vendor non riescono a capire. O “non lo vogliono” capire, perché essendo organizzati per industries al capo del commerciale del Public Sector non interessa altro che portare a casa risultati da parte della PA.
A vedere quello che sta succedendo dopo il ridisegno della governance del digitale (tra Palazzo Chigi, Palazzo Vidoni e AgID), tutto fa pensare che questo fenomeno sia destinato ad ampliarsi: la PA diventerà sempre di più una sorta di “piattaforma abilitante” per l’innovazione del Paese.
Incrementando nel tempo anche la sua spesa interna per ICT, ma non così immediatamente: anzi, tutto lascerebbe pensare che nel breve periodo le spese IT e TLC della PA siano destinate a continuare a calare. Sempre che non intervengano gli auspicati “fatti nuovi”: a partire dalla concessione della deroga al patto di stabilità per investimenti in innovazione e dalla possibile attivazione di mutui di Cassa Depositi e Prestiti finalizzati al perseguimento degli obiettivi dell’Agenda Digitale. Di questa ipotesi se ne parla, girano addirittura bozze di articolato (nella legge di stabilità? nel “Digital Act”, sempre ammesso che esista davvero e che arrivi al traguardo?) ma nessuna fonte ufficiale si sbilancia per confermare o per smentire.
Ma già riuscire a “utilizzare” la PA come generatore di domanda ICT lato imprese e consumer, sarebbe già un grandissimo risultato. Forse mai come ora le condizioni di contesto sono favorevoli: tra Agenzia e Palazzo Chigi non mancano persone capaci di passare finalmente dalla teoria alla pratica e, soprattutto, capaci di capire il linguaggio del mercato.