Cinque settimane di Donald Trump e gli europei stanno scoprendo per la prima volta quello che Vasco cantava 46 anni fa: non siamo mica gli americani.
E non solo non siamo gli americani, improvvisamente scopriamo che i loro interessi non coincidono con i nostri. E non solo i loro interessi non coincidono con i nostri, presto scopriremo che spesso sono opposti.
Indice degli argomenti
La fine dell’alleanza transatlantica e le conseguenze per l’Europa
Ce n’è per riempire un nuovo capitolo del Grande Libro dello Stupore di Natangelo.
Facciamo due capitoli, perché stiamo anche scoprendo che dipendere in tutto e per tutto da un concorrente o, per gli irriducibili romantici, da un alleato inaffidabile, forse non è proprio una mossa geniale.
Per quelli che non credevano che il discorso di Vance a Monaco avesse segnato la fine dell’alleanza transatlantica e, ovviamente, della Nato, venerdì scorso la coppia presidenziale più comica dopo Beavis e Butthead, o scemo e più scemo per i più giovani, ha ribadito il concetto e, a questo punto, solo chi non vuole capire può dire di non aver capito.
L’incontro Trump-Zelensky e la vera natura della politica estera americana
L’incontro del 28 febbraio nello studio ovale, di Trump e Vance con Zelens’kyj secondo me passerà alla storia per tre aspetti:
- per averci offerto una versione istituzionale della caciara da sciampiste che rimarrà insuperata per prestigio almeno fino a quando il Papa non tirerà fuori un chittammuort’ durante un’udienza;
- per avere ribadito, oltre ogni ragionevole dubbio, che la politica degli Stati Uniti è fare l’esclusivo interesse degli Stati Uniti preferendo i diretti rapporti di forza a qualsiasi formalità o compromesso; e
- per avere frantumato fra gli ex alleati, l’illusione da sindrome di Stoccolma che le cose non siano sempre state così.
Chiamatemi cinico, ma almeno dopo il 2001, gli Stati Uniti hanno sempre palesemente perseguito il loro immediato interesse, spesso nascondendosi dietro la scusa della sicurezza nazionale, facendo carta straccia di accordi, alleanze, e di quello stesso “sistema internazionale basato sulle regole” del quale si autoproclamano di continuo i principali difensori.
Almeno nell’ultimo quarto di secolo, ma anche prima, gli Stati Uniti hanno interpretato la loro superiorità militare come una sorta di piedistallo morale, e usato quello per giustificare i loro interventi, sostanzialmente unilaterali ma con seguito di docili alleati per salvare le apparenze.
Ogni volta che un politico americano parla di qualche potenziale conflitto ovunque nel mondo, mi risuonano in testa le parole di Madeleine Albright, storica segretaria di Stato, quando disse: “Insieme se potremo, ma da soli se dovremo”. Non ricordo se si riferiva alla prima guerra del Golfo o agli attacchi NATO contro la Serbia, ma non è che faccia questa differenza.
Terre rare: l’estorsione di Trump all’Ucraina e il destino dell’Europa
E quindi oggi ci ritroviamo a questo punto, con una guerra sul suolo europeo che è servita a sganciare l’Unione Europea dal proprio principale fornitore di energia e partner commerciale, a demolire l’economia dell’Unione, e a riportare i rapporti internazionali fra Europa e Russia ai tempi dell’Unione Sovietica.
Ottenuti tutti questi risultati per gli USA, l’utilità dell’Ucraina è pari a quella di qualsiasi altro territorio: o per estrarne risorse naturali, oppure per installare basi militari. Siccome la Russia non è più credibile come antagonista economico né politico e l’ossessione statunitense ora riguarda la Cina, ecco che Trump si interessa a una fornitura di terre rare.
Ma diciamo pure a un furto. Perché? È presto detto: Trump pretende un accordo per la fornitura di 500 miliardi di dollari di terre rare come forma di compensazione per gli aiuti militari prestati.
Sorvoliamo sul fatto che gli aiuti militari statunitensi venivano col cartellino del prezzo mentre quelli europei erano a fondo perduto.
Sorvoliamo anche sul fatto che questa guerra è costata all’Europa, in perdita di forniture energetiche, in aumento dei prezzi dell’energia, in perdita del principale partner commerciale, nei costi delle sanzioni, molto più di quanto non sia costata agli Stati Uniti.
Dimentichiamo tutto questo e teniamoci solo il fatto che secondo calcoli del Wall Street Journal da Washington sono arrivati a Kiev 120 miliardi, dei quali 53 di aiuti umanitari e 67 di aiuti militari.
Sorvoliamo anche sulla opportunità di chiedere il rimborso degli aiuti umanitari, perché tanto ormai si è capito che l’idea di aiuto che Trump ha in testa è quella che quotidianamente ha luogo in qualunque ospedale statunitense, dove prima ancora di chiederti come ti chiami, ti chiedono se hai un’assicurazione o una carta di credito senza le quali molto semplicemente non entri.
Quindi, Trump vuole indietro cinque volte il valore che gli Stati Uniti hanno erogato all’Ucraina, inclusi gli aiuti umanitari.
Il problema dell’infrastruttura cloud e la dipendenza europea dagli Usa
Credo che gli estorsori della mafia abbiano le lacrime agli occhi dall’emozione e dall’invidia.
E Zelensky deve scegliere fra pagare cinque volte quello che ottiene, e restare alla mercè di un bulletto egocentrico, o cercare qualche alternativa.
Alternativa che potrà venire soltanto dall’Europa. Europa che, peraltro, in questo momento non deve soltanto
- risolvere il problema immediato del conflitto in Ucraina
- capire cosa resta del concetto di sicurezza europea nel momento in cui gli Stati Uniti si rivelano essere un alleato quantomeno inaffidabile, se non addirittura aleatorio,
- e allo stesso tempo iniziare finalmente ad accorgersi che la maggioranza della propria infrastruttura strategica è proprio nelle mani di quello stesso alleato inaffidabile, se non addirittura aleatorio.
Leggevo qualche giorno fa la notizia che il governo olandese si sta preoccupando del fatto che l’infrastruttura informatica della propria pubblica amministrazione, è stata interamente migrata sul cloud statunitense.
Mi aspetto che un giorno di questi, qualcuno in Italia si accorga che anche l’Italia ha fatto la stessa cosa. L’infrastruttura IT della pubblica amministrazione italiana può non essere ancora stata completamente migrata, ma questo solo perché l’Italia è perennemente in ritardo sui tempi progettuali, perché il piano è esattamente quello di migrare tutto sul cloud statunitense.
Che poi Amazon, Google e Microsoft siano solo fornitori sotto il “controllo” di Telecom, Leonardo e SOGEI è una cosa che può credere solo chi vuole stare al gioco, perché il CLOUD Act dice chiaro e tondo che i dati personali di persone di qualsiasi nazionalità in mano ad aziende USA ovunque siano conservati nel mondo devono essere messi a disposizione del governo statunitense, su semplice richiesta, senza l’approvazione di un giudice, e sotto il vincolo di segreto.
Il Gdpr e i fallimenti degli accordi per la protezione dei dati
Quindi TIM, Leonardo e SOGEI non sapranno mai se e quando i loro “controllati” passano i dati allo Zio Sam. Forse la prestigiosa Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale vorrà graziosamente spiegarci come la mettiamo con il Perimetro di Sicurezza Cibernetica del Polo Strategico Nazionale?
Come già gli olandesi, anche i politici italiani dovranno porsi la domanda se abbia senso che un attore inaffidabile quanto gli Stati Uniti di Trump, e quelli di Vance che lo seguiranno quasi certamente, abbia un potere effettivo di controllo sull’infrastruttura informatica. Questa domanda *deve* essere seguita dall’altra se abbia senso in linea di principio appaltare la nostra infrastruttura informatica anche a un alleato affidabile ma extraeuropeo.
Ricordiamoci che gli USA non hanno né mai hanno avuto una decisione di adeguatezza. Vi ricordate quando è entrato in vigore il GDPR? All’epoca esisteva un accordo USA-UE chiamato Safe Harbor, per garantire il libero traffico dei dati verso i provider americani che stavano iniziando a imporsi. La Corte di Giustizia Europea lo ha annullato, perché non dava nessuna delle garanzie che il GDPR richiedeva per il trasferimento dei dati personali.
Panico, ma nel giro di qualche mese la commissione Von Der Leyen aveva già pronto il Privacy Shield, che non cambiava niente lasciava tutto com’era, e ai problemi ci penseremo dopo.
Quando anche il Privacy Shield è stato incenerito dalla Corte di Giustizia Europea, la Von Der Leyen ha fatto carte false perché la Commissione le approvasse il nuovo e migliorato Trans-Atlantic Data Privacy Framework, che è uguale ai due precedenti ed è già in coda per essere incenerito con un prossimo giudizio della Corte.
Se servisse dirlo, tutti e tre gli accordi si esauriscono in autodichiarazioni volontarie e di principio delle società USA, mentre ai cittadini europei non viene riconosciuto nessun diritto effettivo a un ricorso legale.
La soluzione per liberarsi dal cloud americano
È inutile stracciarsi le vesti per la pericolosità degli hacker cinesi o russi per la nostra infrastruttura informatica strategica, se poi un governo americano di tardo adolescenti con problemi di autostima ha la password di amministratore.
Esiste una via d’uscita dall’abbraccio che si sta rivelando mortale con il cloud statunitense? E, soprattutto, è una via d’uscita praticabile?
Secondo me la risposta è positiva, a patto di fare tre cose:
- chiamare le cose con il loro nome,
- rinunciare a giocare a un gioco dove possiamo solo perdere, e
- capire che la soluzione informatica migliore non è necessariamente quella che rende più felici gli informatici (o, per usare un linguaggio più inclusivo, i tecnici del computer).
La prima cosa da capire è che la vecchia battuta secondo la quale il cloud è solo il computer di qualcun altro va intesa in senso assolutamente letterale. E infatti il problema, oggi, è che non sappiamo più quanto questo qualcun altro sia affidabile.
La seconda cosa da capire è che quello che chiamiamo cloud non è semplicemente un nuovo nome per quello che si è chiamato sempre hosting e ancor prima sala server, ma un preciso modello di business disegnato sulle caratteristiche dei fornitori statunitensi e ottimizzato per quelli.
E la terza cosa da capire è che la frase “non ci sono alternative al cloud statunitense” è vera, almeno superficialmente, ma è la risposta alla domanda **sbagliata**.
La prima cosa è la più ovvia: se non ti puoi fidare di qualcuno, non gli affidi cose di valore, o ruoli che possono essere determinanti. Vale quando devi scegliere l’autista per l’autobus della gita scolastica, vale quando scegli chi può fare il bidello o il deputato, deve a maggior ragione valere quando devi scegliere un fornitore per una infrastruttura strategica dello Stato.
Semplice semplice.
E a questo punto partono gli alti lài di quelli che sono più lealisti del Re: “ma come fai a repilcare i servizi di Google Amazon e Microsoft, fermi l’Italia”. Come ho detto, la risposta è corretta, è la domanda che è sbagliata.
All’Italia non servono “i servizi di Google, Amazon e Microsoft”, servono dei servizi di rete affidabili.
Facciamo un esempio che capiamo tutti: i software di produttività personale, cioè Office.
Ora, la frase “Non si può fare a meno di Office” è anche lei una risposta corretta, ma a una domanda sbagliata. Quando si pone la domanda giusta, si scopre che si può benissimo fare a meno di Office, e le cose funzionano pure meglio.
Prove? Gmail. Negli USA (il 90% delle startup e il 60% delle aziende di medie dimensioni usa Gmail). Non Outlook.
A Febbraio 2025 (GSuite ha il 45% del mercato come piattaforma di produttività per ufficio, contro il 29% di Microsoft 365) .
Ora chiediamoci:
- Google Sheets ha più funzionalità di Excel? No.
- Google Docs ha più funzionalità di Word? No.
- Google Slides ha più funzionalità di PowerPoint? No.
GSuite è anni luce indietro, come numero di funzionalità e sofisticazione, a Microsoft Office. Ma il punto non è questo.
Office ha ottenuto e mantenuto il proprio predominio monopolistico puntando su una crescita elefantiaca delle funzionalità, sviluppando allo stesso tempo una interfaccia che definire rococò è un complimento.
Appena è apparso uno strumento palesemente inferiore ma più cool come GSuite, che funzionava in cloud mentre Office era ancora installato localmente, utenti e aziende hanno scoperto che di Office si può fare assolutamente a meno. Con buona pace di OpenOffice/LibreOffice, che ha sempre cercato di vincere al gioco di Microsoft avendo dalla sua il solo fatto di essere open source. Mi dispiace, non basta e soprattutto non serve.
GSuite è la prova che di Office si può fare a meno se solo invece di chiedere un prodotto “che abbia le stesse funzionalità” chiediamo un prodotto “che faccia quello che ci serve”. Fine della storia.
Lo stesso concetto si applica al cloud. Abbiamo avuto l’hosting per anni. Poi un giorno, Bezos si è accorto che Amazon aveva data center con una moltitudine di server, ma che il tasso di utilizzo aveva alti e bassi, a seconda dell’andamento della domanda. E lì ha avuto il guizzo di genio: perché non vendere la capacità di calcolo inutilizzata? Addirittura, perché non puntare proprio su quella, inventandosi un servizio che poteva essere reso “elastico” a richiesta?
Qui vediamo la differenza fra cloud e hosting. Nessun provider in Europa si scopriva con un eccesso di potenza di calcolo. Anzi, le dimensioni dei datacenter erano calcolate con cura, proprio per non ritrovarsi con macchine sottoutilizzate, e di conseguenza con capitali immobilizzati che non rendevano.
Bezos ha creato un’offerta che non esisteva, e con quell’offerta ha creato una domanda che anche lei prima non esisteva. All’improvviso tutte le aziende hanno scoperto di avere bisogno di scalare all’insù o all’ingiù, così, debbotto e senza senso, la propria capacità di calcolo.
Da un lato, i tecnici sono stati come sempre felicissimi di avere giocattoli nuovi con cui giocare, così contenti che hanno scordato come funzionavano i giocattoli vecchi.
Fuor di metafora: nel giro di un decennio i responsabili IT hanno perso ogni competenza nel dimensionare servizi e infrastrutture, fino ad arrivare a quella meraviglia surrealista che sono i “Click Day”, momenti nei quali un picco di domanda creato per nessun motivo logico puntualmente travolge la capacità dell’offerta, convincendo le nostre PA che se non fai hyperscaling non puoi gestire un servizio in rete.
E da lì al bando per il Polo Strategico Nazionale disegnato a forma di Cloud USA è stato tutto in discesa.
Ma del cloud USA si può fare a meno, così come si è fatto a meno di Office. Occorre cambiare la domanda.
Il ritorno all’hosting come alternativa praticabile
Nessuna PA ha bisogno di un hyperscaler, a meno di avere un direttore IT sotto acido che si inventa un click day.
Ma ogni PA ha bisogno di una infrastruttura IT, affidabile entro parametri predeterminati, con audit periodici rigorosi, propria o da un fornitore che sia sotto il suo completo controllo.
Magari la Agenzia per la Cybersicurezza-con-la-y Nazionale vuole farci sapere se le SLA del Polo Strategico Nazionale sono state definite dall’Agenzia o sono magari arrivate su carta intestata di Amazon? E già che ci siamo, quand’è stato l’ultimo audit di terza parte a un datacenter di Amazon Google o Microsoft?
Uscire dal cloud è possibile. Costerà appena meno di quanto è costato entrarci, ma nessuno ci obbligava.
Il trucco è smettere di ragionare su quanto sia cool il cloud USA e riconoscere che un normale servizio di hosting ci basta e avanza, magari aggiornato un po’ ai tempi ma di certo non in grado di competere sulle funzionalità. Come GSuite contro Office.
Probabilmente i tecnici si metteranno a frignare perché i loro giocattoli preferiti non ci sono, ma l’informatica non finisce con l’Infrastructure As Code.
Una infrastruttura IT che risolve i problemi e una che rende felici i tecnici non sono necessariamente la stessa cosa. Specialmente se i tecnici sono cresciuti con l’idea che lo scopo dell’informatica non è risolvere i problemi ma inventare giocattoli sempre più fighi per risolvere in modo diverso quelli vecchi.
Il problema di tutto questo è che è un problema politico, e il livello di competenza tecnologica dei nostri politici è disperante.
Ma forse, di fronte all’evidenza che di là dall’Oceano c’è il manicomio, riusciranno almeno a trovare dei consulenti decenti.
Qui si potrebbe introdurre il problema che le “Big Four”, cioè Deloitte, EY, KPMG, PwC, le grandi società di consulenza che sono attaccate come sanguisughe a ogni governo europeo e alla stessa Commissione, sono tutte britanniche. E il Regno Unito non è Europa.
Ma nella consulenza c’è un detto: attacca il ciuccio dove vuole il padrone. E se il padrone finalmente ritrova una spina dorsale, credo che perfino i consulenti britannici capiscano come devono muoversi.