Furto di identità, il correntista è parte debole (e deve essere risarcito)

La recente sentenza n. 16221 del 31 agosto 2016 del Tribunale di Roma ha esteso il principio secondo cui nel furto d’identità l’onere della prova è a carico dell’istituto di credito. Vediamo la situazione

Pubblicato il 04 Ott 2016

Fabio Di Resta

Avvocato – DPO in ambito ospedaliero e settore pubblico, presidente EPCE, titolare dello studio legale Di Resta Lawyers

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La recente sentenza n. 16221 del 31 agosto 2016 del Tribunale di Roma ha esteso il principio secondo cui nel furto d’identità l’onere della prova è a carico dell’istituto di credito.

E’ il tassello finale di un percorso giurisprudenziale che possiamo analizzare.

Fino quasi tutto il 2009 era molto difficile trovare giurisprudenza che affermasse la responsabilità degli istituti di credito in caso di furti di identità che colpivano il correntista. Come è noto, vi erano alcune motivazioni maggiormente ricorrenti: dalla assenza di previsioni contrattuali volte a tenere indenne il cliente, alla omessa dimostrazione sia delle vulnerabilità dei sistemi informatici bancari, che delle modalità con le quali erano state sottratte le credenziali di accesso al servizio di home banking del correntista.

Fino ad allora solo alcune sporadiche pronunce, interpretando le vicende del furto di identità occorse ai correntisti in chiave di parte debole, si erano spinte ad affermare tenendo appunto conto del disequilibrio contrattuale tra correntista/parte debole da un lato e istituto di credito come titolare del trattamento/professionista dall’altro e quindi a risarcire il danno a favore del correntista.

Così il Tribunale di Palermo nella pronuncia del 20 dicembre 2009 (deposita il 12 gennaio 2010) affronta il punto critico del sistema dell’onere probatorio ed asserisce che: “Nel caso di specie gli attori hanno provato l’esistenza del rapporto obbligatorio in forza del quale agiscono ed allegato l’inadempimento della convenuta, dal canto suo le (omissis) nulla hanno dimostrato in ordine al corretto adempimento delle proprie obbligazioni”. Pertanto, secondo la tesi accolta dal giudicante, il correntista è tenuto a fornire la prova della fonte dell’obbligazione contrattuale, la quale non presenta di solito difficoltà coincidendo con contratto di conto corrente bancario. Tuttavia, la prova dell’inadempimento merita invece maggiore attenzione.

Prescindendo dalla prova del danno sempre presente, il giudicante si trova a dover individuare il concreto significato di inadempimento, il quale si fa talvolta perfino coincidere con la prova della vulnerabilità del sistema informatico bancario, prova molto difficile da dimostrare lato correntista. D’altro canto, la prova dell’inadempimento dell’istituto bancario non può neppure consistere nel dimostrare inequivocabilmente che il sistema informatico sia inidoneo perché per verificare le vulnerabilità del sistema informatico della banca occorrerebbero in tal caso conoscenze tecniche specialistiche nonché supportare costi spesso troppo elevati per il correntista e soprattutto al danno subito dallo stesso.

Più nel merito, la tesi sopra descritta in ordine alle responsabilità dell’istituto di credito ha iniziato a trovare accoglimento tra il 2009 e il 2010 in giurisprudenza anche tramite richiami della normativa privacy, affermando che: “L’art. 31 del d.lgs. n. 196/2003 impone che i dati personali oggetto di trattamento siano custoditi e controllati, anche in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico […] Va, quindi, applicata nel caso di specie, la previsione di cui all’art. 15 del d.lgs. 196/2003[…] Le […], non impedendo a terzi estranei di introdursi illecitamente nel proprio sistema hanno provocato un danno al proprio cliente” (Tribunale di Nocera, 15 settembre 2011; in senso conforme, Tribunale di Palermo, 12 Gennaio 2010; Giudice di Pace di Lecce, 4 dicembre 2013).

Anche la recente pronuncia del Tribunale di Milano del 4 dicembre 2014, sez. VI, accoglie questa impostazione, in tal caso il correntista lamentava plurime operazioni non autorizzate sul proprio conto corrente, il quale presumibilmente vittima di phishing, aveva comunicato il disconoscimento delle stesse alla banca, constatata l’impossibilità di addivenire ad una conciliazione, ricorreva al Tribunale chiedendo di essere risarcito per i danni patrimoniali ed extrapatrimoniali subiti per effetto della mancata adozione delle misure di sicurezza idonee a prevenire un utilizzo fraudolento dei dati personali del correntista.
Nel corso del giudizio veniva nominato un CTU, lo stesso nella relazione tecnica asseriva quanto segue:

  • l’esclusione del Man In The Browser (MITB), in tale attacco il terzo malintenzionato frapponendosi tra il computer del privato e quello della banca utilizza un “virus che si insinua nel programma che si usa per accedere a internet… e che intercetta i dati mentre vengono digitati, ciò avrebbe indirizzato un’operazione di bonifico digitata dal cliente verso un conto complice”, trattandosi invece di operazioni mai digitate dall’utente non può configurarsi il fenomeno informatico in questione;
  • l’esclusione anche di altre ipotesi, come anche il Man In the Middle (MITM), portano a concludere che si trattava di phishing.
  • il fenomeno di phishing è noto da tempo, sin dal 2003 gli istituti di credito avevano messo a punto misure di sicurezza volte a prevenire tale fenomeno, a tale riguardo l’istituto avrebbe potuto adottare una password “usa e getta” ovvero una One Time Password (OTP), inoltre, sin dal 2007 numerose erano le banche che avevano adottato tale dispositivo.

Come asserito nella pronuncia sopra richiamata, fenomeni come il phishing, sono oramai noti ai correntisti, così le email fasulle sono diventate sempre più sofisticate fino alla creazione di varianti come il c.d. spear phishing, ossia una truffa operata sempre tramite email fasulle più accattivanti, spacciandosi per un collega o amico della vittima e utilizzando informazioni personali.

Accanto al fenomeno del phishing, sono state create altre azioni spesso illegali, come lo smishing, che consente di ottenere le password tramite gli sms e il vishing, che consente di ottenere tramite sistemi voip, come per esempio l’applicativo skype, le credenziali di accesso al sistema di home banking del correntista.

Tuttavia, le frodi sono diventate negli anni sempre più complesse, tra queste merita particolare menzione, la c.d. sim swap fraud. Lo schema di frode realizzata è piuttosto complesso, in questo caso viene disattivata la sim card contenuta nel cellulare del correntista e si sfruttano le debolezze dei sistema di sicurezza bancari che forniscono al correntista la password tramite un sms. Questi sistemi informatici, non sono insicuri di per sé, ma necessitano protocolli e azioni preventive volti a mitigare le debolezze che non hanno invece i sistemi informatici che utilizzano gli OTP token (i dispositivi dedicati in possesso del correntista che forniscono le password dinamiche al fine di autorizzare le singole azioni dispositive).

In casi come la c.d. sim swap fraud, era molto difficile ottenere dei risarcimenti da parte degli istituti di credito, infatti, la tendenza degli istituti di credito era spesso di difendersi anche spostando le responsabilità o sul correntista stesso o sulle società telefoniche, queste ultime come noto adottano protocolli meno sicuri rispetto agli standard imposti agli operatori bancari.

Infine, con la sentenza n. 16221 del 31 agosto 2016 del Tribunale di Roma si è affermato anche per questa complessa frode complessa il principio, sia presente nella normativa privacy sia nella più recente normative sui servizi di pagamento nel mercato interno, secondo il quale sussiste un’inversione dell’onere della prova a carico dell’istituto di credito, una volta che il correntista abbia provato il danno e disconosciute le operazioni illecite sul conto. Il motivo è che è il correntista la parte debole del rapporto contrattuale.

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