Il nostro futuro è quello che siamo in grado di costruire. Sono molto d’accordo con questa affermazione anche perché la crisi degli ultimi anni ha dimostrato che prevedere è un esercizio intellettuale ad alto rischio anche per i più preparati sociologi ed economisti. E quindi anche basarsi sulle previsioni – che più di qualche volta risentono di impostazioni ideologiche – comporta quindi, comunque, un alto grado di rischio. Partiamo quindi di alcuni dati che ci saranno utili a inquadrare lo scenario in cui si muove il lavoro.
Prima di tutto, una considerazione piuttosto ovvia ma di cui si fa fatica a tener conto. Il mondo si è arricchito di nuove economie in potente fase di sviluppo che investono sull’innovazione, sui giovani e sulla formazione. Con loro dovremo sempre più competere. Se guardiamo infatti al numero di brevetti registrati, nel 2013 alle spalle di Ibm, sempre leader con la registrazione di 6.809 brevetti, troviamo Samsung (4975 brevetti) e Canon (3825). Tra le prime 10 aziende per numero di brevetti troviamo 3 americane, 4 giapponesi, due coreane e una taiwanese. Il primo ufficio dei brevetti al mondo è quello cinese con 526.000 richieste di registrazioni, un quarto del numero totale mondiale.
Di fronte a questa impetuosa crescita asiatica nell’innovazione e alla chiarissima direzione che sta prendendo l’economia, l’Europa cosa sta facendo? A parole parla di innovazione, di ricerca, di industria ma a fatti dedica ancora 2/3 del suo bilancio all’agricoltura e alle politiche di coesione.
Parlare del futuro del lavoro in Europa, di qualunque tipo, diventa uno sterile esercizio se prima non si prende atto che tra lo scenario mondiale, gli obiettivi e gli strumenti messi in campo per raggiungerli dall’Unione Europea non c’è connessione. L’Europa sta pertanto compiendo un errore tanto grave quanto banale.
Nella mancanza di lavoro attuale, più che un effetto della tecnologia, si nota quindi molto più l’incapacità dell’UE di prendere atto che il modello di sviluppo sul quale aveva basato il suo successo è sorpassato e di adeguare le sue politiche al nuovo scenario. Mentre l’Europa perde occupati, negli Stati Uniti la disoccupazione scende al 6.1, l’economia è in ripresa e il settore manifatturiero è uno dei traini di questa crescita. Le aziende americane stanno riportando produzioni manifatturiere in patria e uno dei motivi è l’aumento della produttività. L’aumento della produttività è anche la conseguenza dell’adozione di innovazioni in campo organizzativo e in campo tecnologico.
Passiamo al nostro paese. Cosa è successo in questi anni in Italia? La produttività del lavoro è scesa, le aziende scappano, il peso dello Stato sulle aziende e sui consumatori è aumentato, il potere di acquisto dei salari è diminuito. Una delle cause della riduzione della produttività è certamente la riluttanza ad adottare nuove tecnologie e modelli organizzativi. Un’altra è la lentezza endemica nel prendere decisioni; un solo esempio per tutti, la decisione se aderire al brevetto europeo, sulla quale da anni ci si gingilla pericolosamente., senza che si sia fatta una sola analisi rigorosa dei vantaggi e degli svantaggi dell’adesione. Come in Europa, anche in Italia c’è grande distanza tra obiettivi e strumenti. Un solo esempio per tutti: parliamo da anni di agenda digitale e di banda larga, ma se andiamo a vedere come sono stati utilizzati i fondi europei del periodo 2007-2013 a disposizione per la banda larga, scopriamo che sono serviti a tutt’altro…
Fare considerazioni corrette sullo scenario che ci circonda aiuta a prendere decisioni migliori per il nostro futuro. È quindi inutile e dannoso demonizzare la tecnologia che, quando ben usata, è un potente strumento di evoluzione delle imprese. Concentriamoci quindi sull’obiettivo ben più importante di utilizzarla per evitare di essere relegati ai margini della nuova economia il che, questo sì, comporterebbe più disoccupazione e povertà.