Il dottor Annthok Mabiis ha annullato tutte, o quasi, le memorie connesse della galassia per mezzo del Grande Ictus Mnemonico. “Per salvare uomini e umanidi dalla noia totale, dalla Sindrome della Noia Assoluta”, perché le memorie connesse fanno conoscere, fin dalla nascita, la vita futura di ciascuno, in ogni particolare. La Memory Squad 11, protagonista di questa serie, con la base di copertura su un ricostruito antico bus rosso a due piani, è incaricata di rintracciare le pochissime memorie connesse che riescono ancora a funzionare. Non è ancora chiaro se poi devono distruggerle o, al contrario, utilizzarle per ricostruire tutte quelle che sono state annientate, se devono cioè completare il lavoro del dottor Mabiis o, al contrario, riportare la galassia a “come era prima”.
Tutto alla vecchia maniera o quasi.
Chi saliva con gli ascensori-salotti. Qui, al settecentoventunesimo piano. Chi planava dalle nuvole quiete. Sul tetto verde. Declivante. Esteso. L’ora che tutto s’indora. Le lampade s’accendono. Antiche per gli ospiti. Senza l’obsoleta elettricità. I tacchi fini sull’erba spessa. Cedono. Con piacere. Bloccano complici. Gli abiti lunghi. Gli abiti corti. I senza abiti. I colori ammaliati da un tramonto ansioso. Di una notte lucida. Stringeva i sogni nella disperazionie che si avverassero.
Spalle in cerca d’abbracci. Occhi accarezzati. Dal mutismo del bosco pensile. Infittire i sentimenti. Mani intascate. Mani accarezzate. Tremate. Tramate. Nei tavoli diradati. Sulle tovaglie gentili. Il collo imperlato. All’antica. Capelli folti. Dell’ospite d’onore. Anziano ma non troppo. Nei suoi duecentoquattordici anni. Giovanissimi centenari sciamano. Sentieri bianchi ghiaiano.
“Sì agenti, saremo sotto copertura. Piacevole… appetitosa…” la comandante Akila Khaspros spiritosava. Gli agenti al piano terra del bus. I viaggiatori-comparse scaricati tutti. Alla fermata prima. S’intubavano. S’incravattavano. Si blusavano. “Ma non distraetevi!” La comandante s’imponeva. “Memorie connesse di ultima generazione sono solidali alle pietanze, chiamiamole così… alle chimiche insomma… l’idea è fingere di mangiarle… mettetele in bocca ma non deglutite… tanto non si masticano…” prefigurava Xina Shaiira, analista del terreno e dell’ambiente e seconda in comando.
Labbra loquaci. Estasiate dai calici. Frusciavano i camerieri. Arridevano i giocolieri. Di appetiti morti. Attutivano i trombettieri. Di desideri corti. Sembiavano i valletti. Di inchini forti. Le felicità stremavano le fatiche della giornata. La rappresentazione sostituiva il rito. La convivialità gli arrosti.
Gli agenti s’immettevano. Si frammentavano. Gli agenti assorbiti. Attavolati. Assaporati. Assuefatti. Abbuffati. Arrembati. Gli agenti smaccati. Appesi. Annebbiati. Ammaccati. Accasciati. Arresi.
Sapori aggreganti. Profumi inerpicanti. Dialoganti. Rossori elargiti. Sollievi accarezzati. I pini odoravano le guance. L’erica leniva la memoria del giorno. Il trifoglio semplificava la notte. Gli appetiti ondeggiavano. Si abbeveravano sotto un quarto di luna. Striata.
Gli chef divini.
I gourmet assoluti.
I commensali straniati.
Assaporavano le chimiche.
Fettucce minime.
Mai sopraffine.
Eredi diafane delle antiche gallette.
(123 – continua la serie. Episodio “chiuso”)
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