Nel giugno scorso un improvviso blackout delle telecomunicazioni ha colpito il Vietnam con interruzioni e diffusi rallentamenti della Rete in varie regioni. Per diversi giorni il Paese è rimasto in parte isolato dal resto del mondo.
I blackout che hanno colpito il Vietnam
Tre dei cinque cavi in fibra ottica che uniscono il Vietnam con il resto dell’Asia, con Stati Uniti ed Europa sono andati fuori uso in quello che è stato il secondo grande blocco delle connessioni in poco più di un anno. I tre cavi danneggiati fanno parte del sistema di cinque principali arterie in fibra ottica che collegano il Vietnam a livello globale, con una capacità combinata di circa 62 Tbps. I cavi sono l’APG, l’IA, l’AAE-1, l’Asia-America Gateway (AAG) e il Southeast Asia-Middle East-Western Europe (SMW-3). A questi si aggiunge poi un piccolo cavo di circa 3mila chilometri che connette il Paese con la Thailandia e Hong Kong.
L’episodio di giugno ha fatto seguito al blackout ancora più severo di inizio 2023, quando tutto il sistema di cavi è stato compromesso da guasti diffusi che hanno messo in ginocchio le connessioni del Paese per diverse settimane. E hanno soprattutto fanno emergere con forza la necessità di un potenziamento delle infrastrutture di Rete, da portare avanti tramite un piano del governo che prevede la realizzazione di dieci nuovi cavi in fibra ottica entro il 2030. Ma lo slancio dell’esecutivo di Hanoi si è subito scontrato con ostacoli geopolitici.
Gli ostacoli geopolitici al potenziamento della rete vietnamita
Una recente inchiesta della Reuters ha infatti messo in luce un intervento molto assertivo degli Stati Uniti per evitare che le nuove arterie in fibra ottica previste dal piano vietnamita vengano costruite da società cinesi. Secondo l’agenzia di stampa internazionale, da gennaio a settembre 2024 funzionari governativi e rappresentati di aziende statunitensi avrebbero tenuto vari incontri segreti con dirigenti vietnamiti del settore pubblico e privato per discutere la pianificazione dei nuovi cavi.
I numeri del mercato digitale vietnamita
L’intervento americano poggia su interessi molto concreti. Il Vietnam è uno dei mercati digitali asiatici più in crescita. Le stime prevedono che raggiungerà un volume di circa 45 miliardi di dollari entro il 2025, con proiezioni che indicano tra i 90 e i 200 miliardi di dollari entro il 2030. Secondo un rapporto di Bain & Company l’economia digitale ha rappresentato oltre il 12% del prodotto interno lordo nazionale nel 2023, con un tasso di crescita annuale del 19% rispetto all’anno precedente. Numeri che nella regione dell’ASEAN collocano il Vietnam dietro solo a Singapore e Malesia.
Le prospettive di crescita e l’attrattiva di data center e cloud
Le prospettive di crescita sono state ulteriormente rafforzate dall’approvazione nel giugno scorso della nuova Legge sulle Telecomunicazioni che ha introdotte diverse novità. Tra queste la più interessante riguarda i data center e i servizi di cloud computing che sono stati scorporati dai più generali servizi di telecomunicazione, sui quali vigono tuttora una serie di restrizioni per gli operatori privati stranieri. Per incentivare gli investimenti da oltreconfine per la realizzazione di data center e la messa a disposizione di nuove nuvole per i dati, la nuova normativa ha cancellato i vincoli di ingresso nel mercato e consentito per la prima volta, ad esempio, alle società straniere di detenere data center nel Paese, possibilità prima vietata.
Le pressioni Usa per estromettere la Cina
Un’apertura del mercato che fa gola non solo agli Stati Uniti, ma anche alla Cina. A fine 2023 il Presidente Xi Jinping si è recato ad Hanoi nella sua prima visita ufficiale negli ultimi sei anni, annunciando la disponibilità della Cina a sovvenzionare varie opere infrastrutturali, quali ad esempio la ferrovia tra Kunming e la città portuale di Haiphong. Tra le opere rientrerebbero anche importanti progetti di telecomunicazione.
Secondo l’inchiesta della Reuters, preoccupati dall’intraprendenza e dalle allettanti promesse di Pechino, i funzionari statunitensi avrebbero fatto pressioni sulle loro controparti vietnamite per convincerle a non firmare contratti, in particolare con una società cinese che realizza cavi sottomarini e che da anni è finita nel mirino di Washington: HMN Technologies.
I rischi paventati dagli Usaal governo vietnamita
I rischi paventati al governo vietnamita sono principalmente tre. In primo luogo, la possibilità che, data la vicinanza tra HMN Technologies e il governo di Pechino, la Cina possa monitorare il traffico dati passante per i cavi tramite backdoor e altri dispositivi di tracciamento. In secondo luogo, le infrastrutture potrebbero essere utilizzate come arma di ricatto e di pressione internazionale, interrompendo deliberatamente la loro operatività in caso di crisi. E infine, scegliendo tecnologie cinesi il governo vietnamita potrebbe trovarsi in una condizione di futura dipendenza dai dispositivi di Pechino. Questi tre rischi sono stati spesso sollevati negli ultimi anni dagli Stati Uniti nelle interlocuzioni con vari Paesi asiatici e si inseriscono all’interno di un’accesa competizione con la Cina per il controllo delle future infrastrutture di Rete nell’area sempre più strategica dell’Indopacifico.
L’inefficacia delle sanzioni contro le società cinesi
L’opera di persuasione degli Stati Uniti si sta intensificando non solo come risposta all’attivismo cinese, ma anche perché i numeri del settore delle telecomunicazioni cominciano a mettere in seria discussione l’altra tattica americana che ha sempre accompagnato l’opera di convincimento dei Paesi stranieri, ovvero le sanzioni contro le società cinesi. Prendendo come riferimento il colosso Huawei, i suoi profitti nel 2023 sono raddoppiati, toccando la quota straordinaria di 12 miliardi di dollari. Le entrate sono state di quasi 98 miliardi di dollari, con una crescita del 10% rispetto all’anno precedente. A fronte di questi risultati l’amministrazione americana sta cominciando a valutare tattiche che, più che colpire con sanzioni l’offerta di tecnologie da parte delle società cinesi, facciano leva sull’esposizione dei rischi di sicurezza insiti in partnership con operatori legati a stretto giro con il governo di Pechino.
Il ruolo di collante politico anti-Usa svolto dai cavi
Di fronte agli investimenti cinesi e a tecnologie di qualità a basso prezzo, finora molti Paesi asiatici che gravitano nella sfera d’influenza americana non si sono fatti troppe remore nell’essere coinvolti in progetti di nuove infrastrutture di telecomunicazione sponsorizzate da Pechino. Un caso emblematico è quello del sistema di cavi Asia Link Cable (ALC), oltre 6mila chilometri composti da un’arteria principale che collegherà Hong Kong con Singapore, con diramazioni e punti di atterraggio anche in Malesia, Filippine e Vietnam, ovvero tre nazioni molto vicine a Washington. Il consorzio che porta avanti il progetto è guidato da China Telecom Global e dalla società singaporiana Singtel, con un investimento totale di oltre 300 milioni di dollari. Il nuovo sistema dovrebbe essere operativo a partire dalla fine del 2025 e sarà composto da otto coppie di fibre in grado di trasmettere fino a 18 Tbps per coppia, l’equivalente di oltre 2.500 ore di video ad altissima definizione al secondo. A realizzare il cavo sarà proprio HMN Technologies, che si è aggiudicata la gara nel 2022.
Il timore principale di Washington è che nella loro incessante ricerca di banda per trasmettere contenuti e servizi in Asia, i grandi provider dell’Internet possano scegliere i cavi veloci messi a disposizione dalle aziende cinesi, instradando una mole enorme di dati verso la Cina o verso territori sotto l’influenza di Pechino, che avrebbe così modo di gestire, monitorare ed eventualmente intercettare il flusso delle comunicazioni. Uno scenario che preoccupa molto, anche per il ruolo di collante politico che i cavi possono svolgere nel cementare un fronte di Paesi che potrebbero mettere in discussione l’attuale egemonia internazionale degli Stati Uniti nel settore delle infrastrutture di Rete.