Nel ricordare al Senato che alla fine di aprile il governo dovrà presentare alla Commissione europea il piano dettagliato del PNRR (Programma di Ripresa e Resilienza), Mario Draghi non ha usato il termine “politica industriale” ma ha riproposto con forza il ruolo dello Stato nel perseguire gli “obiettivi strategici” per il prossimo decennio e oltre, con una tappa intermedia al 2026 (anno finale del NGEU-Next generation EU) e confermando le scadenze del 2030 e 2050 per l’impegno della Unione Europea ad arrivare a “zero emissioni nette di CO2 e gas clima-alteranti”.
Ha confermato le sei missioni enunciate dal governo Conte-2 eventualmente “rimodulate e riaccorpate” (innovazione-digitalizzazione e competitività, transizione ecologica, infrastrutture per la mobilità sostenibile, formazione e ricerca, equità sociale-di genere-generazionale-territoriale, salute) aggiungendo che “il ruolo dello Stato e il perimetro dei suoi interventi dovranno essere valutati con attenzione”. Da queste parole traspare dunque una visione non ideologica, ma pragmatica e aperta al contributo dei privati al PNNR “attraverso i meccanismi di finanziamento a leva (fondo dei fondi)”.
Il tormentone delle ultime settimane circa la governance del PNNR affidata a comitati interministeriali o supercommissari è superato, incardinandola nel Ministero dell’Economia e Finanza “con la strettissima collaborazione dei Ministeri competenti che definiscono le politiche e i piani di settore”.
Linguaggio semplice e disarmante, che qualche appassionato sostenitore della “programmazione” nostalgico degli anni ‘70 troverà forse timido ed evasivo, ma che al tempo stesso sconfessa gli ultra-liberisti convinti che la politica industriale sia ancora una “parola oscena” (copyright l’ex-presidente della Commissione europea Romano Prodi) perché lo Stato non deve intromettersi sulle scelte del libero mercato e sugli sviluppi delle tecnologie.
Nelle prossime settimane vedremo in quale misura il nuovo governo vorrà contribuire alla strategia europea che la presidente Ursula von der Leyen ha promesso di aggiornare alla luce dello shock da Covid-19, imperniata sulla “transizione verde e digitale”.
Il ruolo dell’Italia nei “Progetti importanti di interesse comune europeo”
Un’utile sollecitazione viene dal “Non-paper” franco tedesco di Bruno Le Maire e Peter Altmaier “Germany and France: together for a new innovative European industrial policy” (16 febbraio), in cui si richiamano le potenzialità dei “Progetti importanti di interesse comune europeo” (IPCEI) sostenuti dal bilancio UE. Nei primi due già in fase di definizione e avviamento (European Battery Innovation), mirati all’efficienza energetica e alla mobilità sostenibile (batterie di nuova generazione e relative catene del valore per la mobilità elettrica), l’Italia partecipa con altri 11 Stati membri e coinvolge 12 imprese (tra cui Enel, FCA Italy, Fiamm) e due centri di ricerca (Enea e Fondazione Bruno Kessler). Tra gli IPCEI a cui si sta pensando per il prossimo futuro, menzionati nel documento franco-tedesco, vi sono la filiera dell’idrogeno, la decarbonizzazione dell’industria, i combustibili biologici per il trasporto aereo, la chimica verde, le infrastrutture e i servizi Cloud.
Il ritorno a progetti di collaborazione Stato-ricerca-innovazione industriale: opportunità e rischi
In alcuni miei interventi pubblicati nei Commenti sul Sole24Ore ho da tempo sottolineato l’importanza degli IPCEI come ritorno a progetti europei di collaborazione Stato-ricerca-innovazione industriale, che invitano a guardare oltre il pur utile ma limitato orizzonte di Industria 4.0, condizionato da una scelta ideologica a favore degli incentivi puramente “orizzontali”. Progetti europei utili anche per combattere la nostra congenita frammentazione del sistema di attori pubblici e privati che non riesce a promuovere il binomio “concorrenza-collaborazione” (“co-petition”) fondamentale per la crescita competitiva delle imprese e delle filiere.
In uno dei suoi molteplici illuminanti interventi sulla moderna teoria di una nuova politica industriale (“Green industrial policy”, Oxford Review of Economic Policy, 3, 2014), Dany Rodrik ricordava e confutava le due classiche obiezioni allo stesso concetto di politica industriale:
- il governo non è onnisciente, non deve scegliere i vincitori e rischia di assorbire risorse pubbliche in progetti perdenti;
- i sussidi pubblici all’industria sono prima o poi catturati da interessi privati che ne distorcono l’allocazione favorendo rendite parassitarie e il “chrony capitalism”.
Due esempi citati frequentemente dagli obiettori alla politica industriale sono a) l’aereo supersonico francese Concorde scomparso dal mercato dopo essere precipitato il 25 luglio 2000 poco dopo il decollo del volo Parigi-New York e b) negli anni 2000 il fallimento della californiana Solyndra, impresa fondata nel 2005 puntando sulle cellule fotovoltaiche CIGS (basate su rame-indio-gallio-selenide) assai meno costose di quelle dominanti al silicio, sostenuta da fondi pubblici, lodata come campione nazionale da Obama nel 2010 e fallita nel 2011 a seguito del crollo del prezzo internazionale del silicio anche per il massiccio aumento della produzione cinese.
Rodrik riconosce ovviamente la possibilità di errori del governo nel prevedere futuri scenari tecnologici, comunque soggetti a grande incertezza, in particolare con riferimento al grande obiettivo della transizione verde, ma ricorda la famosa frase di Thomas Watson (fondatore dell’IBM) “If you want to succeed, raise your error rate”.
Sostegno a ricerca e imprese
Peraltro, il sostegno pubblico alla ricerca di base, che nessuno mette in discussione in quanto necessario per assicurare alla società un bene pubblico non fornito dal mercato, in tutti i paesi si accoppia in misura variabile a incentivi pubblici alle imprese che investono in innovazione di prodotto e di processo. Accanto ai citati fallimenti di politiche settoriali, e altri esempi che possono essere ritrovati nella storia del MITI giapponese nel dopoguerra, pochi dubitano del ruolo decisivo dei programmi statunitensi legati al militare e all’energia (DARPA, ARPA-E) nel sostenere innovazioni vincenti del settore privato in campi diversi come informatica, computer, telecomunicazioni, biotecnologie, aeronautica, aerospazio.
Quanto alla manipolazione politica del governo da parte delle grandi imprese percettrici dei sussidi pubblici, Rodrik fa riferimento al classico modello di agenzia (“principal-agent”) per sottolineare che promuovere innovazione e competitività delle imprese nazionali comporta un continuo scambio di informazioni fra Stato e mercato (embeddedness).
Il tema continua a raccogliere analisi e suggerimenti di vari economisti, tra cui Philippe Aghion, Charles Sabel, Daron Acemoglu, John Van Reenen, Mariana Mazzucato. In una breve scultorea raccomandazione di Rodrik, “Government agencies need to be embedded in, but not in bed with, business. The right model lies between arm’s-length and capture”.
Governo e privati insieme per produttività e obiettivi sociali
Riprendendo un precedente contributo seminale dello stesso Dani Rodrik con il collega di Harvard Robert Hausmann (Economic Development as Self-Discovery, Journal of Development Economics, 72, 2003), la politica della trasformazione verde non va pensata come una lista di strumenti specifici, ma come un “processo di scoperta” da parte del governo insieme al settore privato.
Con simile linguaggio Karl Aiginger e Dani Rodrik su “Rebirth of Industrial Policy and an Agenda for the Twenty-First Century” (Journal of Industry, Competition and Trade, 20, 2020) affermano che oggi la concezione e pratica della politica industriale poggia molto meno su incentivi calati dall’alto e assai più su una collaborazione sostenuta tra settore pubblico e privato in tema di produttività e grandi obiettivi sociali. E insistono sulla visione “mission oriented” della politica industriale, la cui tentazione colbertista va monitorata e frenata tramite periodiche valutazioni di efficacia.
La politica industriale non può limitarsi a correggere i fallimenti del mercato: “Industrial policy has to be driven by societal goals (…) climate, health, poverty prevention, good-job creation and the reduction of inequality (…) Industrial policy is therefore a search process in unknown territory, which should be open to new solutions, experiments, and learning”.