I diritti civili online a supporto dell’Agenda

La condanna del blogger per istigazione a delinquere ha il merito di portare in primo piano una questione di cui si parla poco in ambito di Agenda digitale: come i diritti civili online sono una componente ineliminabile di qualsiasi modello di business o progetto di riforma istituzionale che coinvolga informatica e telecomunicazioni

Pubblicato il 14 Mag 2013

Andrea Monti

Avvocato specializzato IT

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La condanna del blogger riconosciuto colpevole di istigazione a delinquere e apologia di reato pronunciata dal tribunale penale di Roma pone fine, speriamo, all’ipocrisia generalizzata che caratterizza il dibattito sui diritti civili online e in particolare sulla libertà di espressione. Si può non condividere una legge, ma fino a quando quella legge esiste violarla implica essere puniti. A prescindere dal modo – fisico o digitale – con il quale l’atto illegale viene commesso. Poi, come nel caso di temi controversi come la legalizzazione delle droghe leggere o dell’eutanasia, si può decidere di compiere azioni di disobbedienza civile per cercare di indurre il legislatore a cambiare idea ma questa scelta non da diritto all’impunità perché si ritiene di star facendo “ciò che è giusto”.

Merito della rete, dunque ma non da oggi, è di aver tirato fuori il tema dei diritti civili dai manuali di diritto costituzionale per farli diventare un elemento quasi costante nelle riflessioni sul presente e sul futuro dell’internet. L’aspetto più interessante, e sul quale molto poco si riflette in termini di agenda digitale, è che i diritti civili online sono una componente ineliminabile di qualsiasi modello di business o progetto di riforma istituzionale che coinvolga informatica e telecomunicazioni. Detta in altri termini, nessuno, oggi, può permettersi di ignorare la libertà di espressione quando “pensa” a come usare la rete. I due esempi paradigmatici sono Google e Facebook. Entrambi hanno costruito le loro fortune sull’accumulazione di dati e informazioni, ma su due facce diverse del diritto alla riservatezza. Il patto fra Google e i suoi utenti è quello di proteggere la loro privacy. Nessuno altrimenti, affiderebbe ai log di Mountain View la propria vita privata. Facebook, al contrario, prospera sulla compulsione delle presone che vogliono a tutti costi essere percepite come “esistenti” mettendo in piazza il loro vissuto.

A livello istituzionale “brillano” le recenti uscite (poi smentite) del Presidente della Camera dei deputati Boldrini sulla necessità di avviare una riflessione sull’anarchia del web e il nuovo tentativo dell’Agcom basato su un’interpretazione impropria della direttiva e-commerce e sulla dimenticanza che in materia penale c’è una riserva di legge costituzionale, di imporre agli operatori, al di fuori del controllo della magistratura, sistemi di filtraggio per la “tutela del copyright”.

Esiste un “filo rosso” che lega questi – e molti altri – fatti che coinvolgono poteri pubblici e privati ed è costituito dalla mancata percezione, da parte dei decision maker, degli indubitabili problemi causati dalla possibilità concreta per le persone di organizzarsi senza mediazioni e in tempo reale. Finalmente – o purtroppo – detta in altri termini, le formiche hanno la possibilità di “arrabbiarsi” e di tradurre in azioni la loro “rabbia…tura”. Ma c’è qualcosa di diverso fra il manifestare pubblicamente utilizzando anche toni molto forti e farlo tramite una pagina web? Si e no, anzi, no e si. No, perché, appunto, la libertà di espressione è tutelata a prescindere dal mezzo che la veicola. E dunque pensare a forme di repressione “mirate” per i servizi di comunicazione elettronica è illegale, sbagliato e inutile. No, perchè la fruizione del diritto costituzionale di libertà di parola non può trasformarsi in “parola in libertà”. In altri termini, anche utilizzando un social network rimangono fermi i principi cardine del nostro ordinamento in materia di “personalità della responsabilità penale”: ognuno deve rispondere di ciò che fa. Anche online.

E allora, per chiudere tornando all’affermazione che apre questo intervento, in puro diritto non c’è nulla di strano nel ritenere punibile un’apologia di reato commessa tramite Facebook. E chi, sulla base di un malinteso diritto all’impunità online, sostiene il contrario fornisce il miglior argomento a censori e repressori per ottenere “giri di vite” che si traducono, in concreto e come dimostra l’incredibile vicenda del la regolamentazione del copyright, nell’impossibilità di promuovere uno sviluppo sostenibile dell’uso della rete in Italia.

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