L’attuazione della Agenda Digitale Italiana (ADI) è ancora un miraggio che una pattuglia di volenterosi sognatori continua ad inseguire con ostinazione e determinazione ma anche – ad essere onesti – ormai con un pochettino di stanchezza e di delusione.
Il problema principale – in questo breve articolo ne individuo almeno quattro – continua ad essere quello della incertezza sulle risorse finanziarie disponibili, che potrebbe trasformarsi in breve tempo nella certezza della loro indisponibilità.
Il tema è stato più volte sollevato e sottolineato, anche a livello istituzionale, ma la soluzione tarda ad essere individuata.
Stiamo parlando almeno di una dozzina di miliardi di euro, quelli che appunto si stima siano necessari per realizzare i principali programmi dell’ADI, che non possono che essere reperiti nei fondi strutturali europei – gli unici soldi veri – della per noi ancora prossima programmazione 2014 – 2020, per quelli bravi ormai in corso.
La commedia degli equivoci
Il Governo e i Ministeri sono convinti che gran parte delle risorse saranno rese disponibili dai programmi operativi regionali mentre le Regioni sembrano non sentire ragione e ben che vada ci metteranno qualche punto percentuale del FESR, del FSE e del FEASR, ipotizzo al massimo qualcosa tra uno e due miliardi di euro.
Fiumi di parole
Ad aggravare questo inquietante scenario c’è poi un grave problema dicarenza di competenze di dominio in materia di innovazione e di digitale che determina la scrittura di documenti strategici – ammesso di averne ancora veramente bisogno – che continuano ad avere il difetto originale di essere tristemente focalizzati e sbilanciati sempre e solo sui temi dell’eGovernment.
Ad esempio continuiamo a farci vanto di avere finalmente recuperato il tempo perduto sugli open data e sull’open government – ammesso che sia vero – mentre il mondo ha ormai virato sui big data e sull’internet of things.
Un ecosistema digitale e della innovazione
L’Europa ci chiede giustamente – almeno per quanto concerne l’uso dei fondi strutturali – di considerare l’innovazione e il digitale come elementi centrali della politica industriale del Paese e della smart specialisation strategy e non di focalizzarci ad esempio sull’anagrafe informatizzata, sulla identità digitale, sul fascicolo sanitario elettronico – insomma su progetti di eGovernment – che giustamente dovrebbero trovare copertura finanziaria nei bilanci dello Stato, delle Regioni e degli Enti locali magari attraverso reali politiche di spending review e con la dovuta attenzione al ritorno degli investimenti.
L’Europa ci chiede inoltre – sempre giustamente a mio avviso – di avviare robuste e credibili politiche di generazione delle nuove e pregiate competenze professionali che saranno i posti di lavoro del futuro.
Noi però sembriamo non capire e continuiamo ad essere severamente bacchettati dall’Europa e a tardare a chiudere la fase di programmazione mentre altri stanno già cominciando a spendere, anzi, ad investire per competere e crescere.
Il perdurare della mancanza di operatività dell’Agenzia per l’Italia Digitale (AgID) – una storia surreale, è incredibile ma ne manca sempre un pezzo – sicuramente non aiuta così come l’assenza al momento di un chiaro riferimento politico a livello governativo sul tema del digitale non può che ingenerare confusione e dilatare ulteriormente i tempi.
A complicare maggiormente le cose ci si mettono anche quei pezzi di pubblica amministrazione – e sono ancora tanti, anzi troppi – che continuano indisturbati a sviluppare piattaforme e applicazioni secondo la ben tristemente nota logica dell’abito sartoriale.
Possiamo permettercelo?
Anche questo problema è serissimo perché continua a venire meno l’interoperabilità dei sistemi informativi della pubblica amministrazione, si perpetua con lo sperpero delle poche risorse ancora disponibili e si minimizzano le opportunità derivanti dagli investimenti di sistema.
Sicuramente l’ingombrante impianto delle così dette in house dell’ICT della pubblica amministrazione – pensate oltre che per il “brain and buy” anche per il “make” – costituisce un ulteriore problema, tema con il quale vado a concludere.
Il paradosso
Un po’ come se lo Stato, le Regioni e gli Enti locali avessero tante società pubbliche la cui unica missione è quella di produrre mezzi di trasporto, ed erogarne la manutenzione, solo per l’apparato pubblico.
Aziende che non possono vendere al di fuori di un mercato chiuso e circoscritto che, oltretutto, in questo momento ha diminuito drasticamente l’acquisto dei mezzi, aumentandone il ciclo di vita, e ha ridotto ai minimi termini la loro manutenzione.
Produrre o comprare innovazione digitale?
Fuor di metafora abbiamo aziende, di qualche variegata natura pubblica, che sono al tempo stesso vere e proprie fabbriche di software e agenzie di servizi che possono solo vivere di commesse pubbliche in palese contraddizione con, non dico le regole, ma almeno le logiche di mercato.
Ovviamente la necessità di mantenerle in vita, anche a tutela dell’occupazione, non può che essere un serio ostacolo sulla strada di fare efficienza e sul percorso di ottenere soluzioni efficaci.