Avendo avuto modo, come tutti in questo periodo, di leggere slides e documenti sulle variegate ipotesi di spending review, a un certo punto ho avvertito una sensazione di leggerissima confusione mentale: quasi ovunque, gli esperti identificano nell’Information & Communication Technology il driver fondamentale per la razionalizzazione della pubblica amministrazione e conseguente raggiungimento di obiettivi di risparmio. E fin qui, ci siamo. Ci siamo e ci stanno lavorando in tanti, in questa direzione.
Poi, però, si passa alla lettura dei giornali e dei blog “d’opinione” e ci si ritrova proiettati in un altro pianeta: righe e righe di testo finalizzate a spiegarci quanto l’informatica pubblica costi troppo, quanto sia sprecone il tal Comune o la tal Regione, quanto maledettamente troppo costi quel certo portale, eccetera.
Tralasciamo le fin troppo facili tentazioni di cadere nella dietrologia applicata, cercando di capire se c’è un nesso tra questi “indignados” e la lobby della conservazione ad ogni costo dello status quo. Facciamo finta che non sia così, e concentriamoci sulla sostanza del fenomeno.
Il punto di partenza è uno e uno solo: la PA e la Sanità italiana spendono davvero molto poco in Information Technology. Netics ha appena rilasciato l’aggiornamento sui dati di spending 2013, confrontandoli coi valori degli altri Paesi UE (meglio evitare di incrementare l’angoscia mettendo in ballo un confronto con USA, Canada e Giappone): in Sanità siamo al sedicesimo posto (sui 26 Paesi UE per i quali sono stati trovati i dati da confrontare), mentre il resto della PA è al tredicesimo. Il confronto è fatto in termini relativi, dividendo lo spending assoluto per il numero di abitanti di ciascun Paese.
Il paradosso (e qui so di ripetermi, avendo più volte espresso questa opinione) è che PA e Sanità italiana riescono anche a spendere male quel poco che spendono. Ma non per questo ha senso ergersi a paladini del bisogno di tagliare la spesa informatica pubblica italiana.
Il fatto vero è che i numeri, letti in quanto tali, dicono tutto e il contrario di tutto: possiamo girarli come più ci piace, e dire quello che vogliamo. Ma dietro ai numeri ci sono “i fatti”, situazioni specifiche.
C’è, ad esempio, un’infrastruttura informatica della PA decisamente obsoleta: almeno un terzo dei 265.000 PC presenti nei Comuni italiani ha più di 6 anni di età, con punte che arrivano persino ai 15 (quindici!) anni in qualche Comune anche piuttosto “grandicello”. In Sanità, l’età media dei PC è pari a 4,8 anni: se consideriamo che in moltissime ASL sono appena stati rinnovati parchi macchine di dimensioni significative, significa che ci sono sicuramente – da qualche parte – PC comprati anche 8-9 anni fa.
Il paradosso è che molti CIO di questi enti fanno ragionamenti di questo tenore: “ho PC molto vecchi, quindi non posso aggiornarli a nuovi sistemi operativi e non posso farci girare applicativi di nuova generazione”. Risultato finale: spendono, in assistenza tecnica e in manutenzione di software vintage, moltissimo di più di quanto costerebbe loro un nuovo parco PC e un gran bel refresh del software applicativo.
Per essere chiari: l’assistenza ai posti di lavoro per parchi PC “di terza età” (non coperta dalle convenzioni Consip, dove si arriva a coprire PC non più vecchi di 5 anni) costa annualmente (dati rilevati sul campo, presi da delibere di affidamento pubblicate su Internet) quasi quanto costerebbe – “one shot” – un PC nuovo di zecca a prezzi Consip. Molto meno di quanto costerebbe un noleggio a 5 anni, ovviamente comprensivo di assistenza.
In un’azienda privata, il CIO verrebbe invitato a raggiungere l’uscita con una certa solerzia.
Nel caso specifico italiano, il problema è che i CIO tentano di far capire al top management delle amministrazioni l’assurdità della situazione, senza riscuotere un enorme successo.
Quindi il tema non è tanto l’indignarsi su quanto costa l’informatica negli enti pubblici, quanto piuttosto sul quanto poco il top management della PA sia in grado di capire ciò che i veneti riescono meravigliosamente bene a sintetizzare nell’espressione “peso il tacòn del buso”. Rattoppare un’infrastruttura IT da mercatino del vintage costa molto di più di una radicale sostituzione.
Il ragioniere capo del Comune o della Regione, a questo punto, ti spiega che siccome c’è il patto di stabilità lui non è in grado di mandare avanti neppure la più piccola iniziativa che si porti dietro la parola “investimento”. E torniamo ad avvitarci intorno alla spirale dei controsensi: buttiamo via i soldi per accontentare qualcuno che voleva che non buttassimo via i soldi.
A questo punto, qualsiasi iniziativa sensata posta sotto il titolo “Agenda Digitale” non può prescindere da un paio di interventi propedeutici: una revisione del patto di stabilità finalizzata a rendere possibili gli investimenti in innovazione e una linea di credito specifica da parte di Cassa Depositi e Prestiti. Mutui per l’innovazione tecnologica: un’operazione che il Presidente Bassanini ha sicuramente ben presente anche perché ebbe già modo di vararla (con l’allora suo cappello di Ministro) una ventina abbondante di anni fa.
Mi risulta che entrambi i temi siano all’ordine del giorno, anche se non si vedono ancora i risultati concreti.
Sarebbe poi meraviglioso se a partire da questi mutui si innescasse un circuito virtuoso di procurement intelligente: dove gli enti mettono a gara “soluzioni a problemi” e non già “adempimenti puntuali di item di capitolato”, e dove i vendor potessero essere coinvolti maggiormente anche in termini di corresponsabilità nel raggiungimento di obiettivi puntuali e facilmente misurabili.
Nel suo piccolo, il “Patto per la Sanità Digitale” annunciato dal Ministro Lorenzin ha l’ambizione di andare esattamente in questa direzione: liberare investimenti, cambiare il modo di acquistare, finalizzare il tutto alla razionalizzazione della spesa.
Il modello potrebbe essere liberamente copiato dalle altre amministrazioni centrali, regionali e locali: basta volerlo.