Proprio nei giorni in cui la crisi politica stava inesorabilmente trascinando l’Italia verso le prime elezioni repubblicane autunnali e mentre, rispetto alle scadenze europee, l’attenzione dei più si concentrava sulla rata di fine anno del PNRR (21,8 miliardi di euro), tra Roma e Bruxelles si sono consumati senza grandi clamori mediatici due fatti probabilmente più rilevanti per gli scenari digitali del Paese.
Gli obiettivi digitali Ue al 2030 e i fondi di coesione 2021-2027
Il 14 luglio la Commissione europea ha salutato l’accordo politico raggiunto dal Parlamento europeo e dal Consiglio UE sul percorso per il decennio digitale, proposto da Ursula von der Leyen nel suo discorso sullo Stato dell’Unione del settembre 2021. Se tutto filerà liscio, nei prossimi mesi la Commissione europea, di concerto con gli Stati Membri, elaborerà gli indicatori chiave di prestazione (ICP) che serviranno a misurare i progressi verso gli obiettivi al 2030 e, su queste basi, gli Stati Membri presenteranno la roadmap strategica con la traiettoria prevista per il raggiungimento dei target.
Insomma, se in passato il DESI, l’indice di digitalizzazione dell’economia e della società elaborato annualmente dalla Commissione, poteva anche essere accolto con scetticismo e disinteresse, d’ora in poi, potenzialmente già dal 2023, sarà fonte di giudizi ben più rilevanti e conseguenti raccomandazioni formali da parte di Bruxelles.
Accanto al potenziale bastone, perlomeno verso i Paesi come l’Italia che si sono sempre trovati nelle retrovie del DESI, è nel frattempo arrivata anche la carota dell’accordo di partenariato firmato il 19 luglio a Roma tra la Commissaria europea Elisa Ferreira e la Ministra Mara Carfagna che sblocca i fondi per la coesione, rivolti in particolare alle Regioni meridionali. Si tratta di ben 42,7 miliardi di euro a valere sul bilancio UE 2021-2027, di cui 9,5 miliardi per ricerca, innovazione e digitale, ai quali va aggiunto il co-finanziamento nazionale.
Non tantissimi, apparentemente, rispetto a quelli stanziati per il PNRR (51 miliardi di euro complessivi per il digitale) ma occorre ricordare che si tratta esclusivamente di finanziamenti a fondo perduto, che dunque non vanno restituiti. E in più si concentrano sulle aree del Paese a maggior divario territoriale. Sommati dunque ai fondi PNRR potrebbero essere cruciali per far rimanere l’Italia in carreggiata nel percorso verso gli ambiziosi obiettivi al 2030.
PA, la vera transizione è culturale: sfide e obiettivi per il successo del PNRR
Le sfide del PNRR: le principali criticità per l’Italia e gli altri paesi del Sud Europa
Secondo un recente studio del network PromethEUs, coordinato dall’Istituto per la Competitività (I-Com) e del quale fanno parte anche il Real Instituto Elcano (Spagna), IOBE – Foundation for Economic and Industrial Research (Grecia) e l’Institute of Public Policy (Portogallo), lo schema nel quale si muovono i PNRR dei 4 Paesi, ai quali vanno 81 miliardi di euro, su un totale di 131,5 miliardi di euro allocati alla transizione digitale (dunque, ben il 61,6%), soffre di alcuni difetti di partenza, complice la fretta con il quale il dispositivo è stato approvato a livello comunitario. Con il rischio che finisca per essere soprattutto un’occasione persa per colmare il divario digitale con i Paesi dell’UE più avanzati e migliorare la vita e la produttività di cittadini e imprese.
La mancanza di coordinamento tra i vari programmi finanziati dall’Europa
Innanzitutto, manca, almeno ex ante, un vero coordinamento tra i vari programmi finanziati dall’Europa che insistono sulle stesse tematiche, così come tra i diversi Paesi su priorità strategiche individuate a livello europeo (in campo digitale, ad esempio l’intelligenza artificiale, la cybersecurity o la connettività). A questo proposito, non c’è stato modo di imporre una quota minima di progetti sovranazionali, che coinvolgessero più Stati Membri. Un aspetto giustamente enfatizzato dal percorso per il decennio digitale proposto dalla Commissione europea ma che ha visto i Paesi percettori dei fondi PNRR muoversi in ordine sparso. E in generale privilegiando una gestione esclusivamente nazionale dei progetti. Un’occasione almeno in parte persa per rafforzare sia dal lato della domanda che dell’offerta quel mercato unico che nel digitale (e non solo) stenta a decollare.
Più risorse agli investimenti e meno alle riforme
Un altro risultato emerso dall’analisi di benchmarking realizzata dai think tank affiliati a PromethEUs è che i PNRR, in generale, dedicano più risorse e meccanismi agli investimenti e meno alle riforme. Tutte le leve, i programmi e le componenti che riguardano la transizione digitale dovrebbero dare priorità alle riforme rispetto agli investimenti o, almeno, trovare tra le due un migliore equilibrio. Anche perché, per avere pienamente successo, la transizione digitale deve portare a un radicale cambiamento culturale e organizzativo. Gli investimenti certamente forniscono il carburante alla macchina ma se poi il modello dell’autovettura rimane lo stesso nulla o poco sarà cambiato dopo che il PNRR terminerà.
Frammentazione, colli di bottiglia procedurali e scarsità di competenze digitali
Un’ulteriore sfida che emerge dallo studio è quella collegata all’attuazione dei PNRR. Tra i principali fattori che potrebbero incidere sfavorevolmente, a cominciare dall’Italia, possono essere citati l’eccessiva frammentazione dei soggetti attuatori, i soliti colli di bottiglia procedurali (legati in particolare ad autorizzazioni e licenze) e la scarsità di competenze digitali. Per queste ultime incombe sulla pubblica amministrazione una sorta di paradosso del Comma 22. È tanto più urgente investire risorse per aumentare le competenze nelle amministrazioni pubbliche meno preparate per approntare programmi per farlo (al pari di altre policy digitali). A partire dalle amministrazioni territoriali. Per questo è indispensabile non solo un coordinamento ma anche un advisory da parte di soggetti esterni (vedi CDP) o, in alternativa, forme di gemellaggio con amministrazioni con maggiori competenze oppure, nei casi più gravi e più difficile da risolvere, occorrerebbe ricorrere all’esercizio di poteri sostitutivi.
Considerato che i fondi dei PNRR hanno un orientamento più basato sui risultati, a differenza dei tradizionali programmi europei, e che chi è ricorso ai prestiti, come l’Italia, dovrà un giorno restituirli, monitoraggio in tempo reale e valutazione ex post diventano strumenti essenziali di accountability.
Informazioni complete e chiare sui KPI
Per renderli possibili occorre però che gli Stati membri forniscano informazioni complete e chiare sui KPI (Key Performance Indicators) previsti dal regolamento che sovraintende al PNRR. Tuttavia, in Italia come altrove, non sempre i KPI sono stati concepiti come metriche che assicurano l’effettivo raggiungimento degli obiettivi identificati nei PNRR.
Il primo passo dovrebbe però essere quello di rendere davvero comparabili i piani, che risentono di organizzazione e livelli di trasparenza altamente eterogenei. Anche perché è proprio dal confronto che deriva la possibilità di imparare e migliorarsi. Senza sprecare la grande occasione che è stata data all’Italia e agli altri Paesi del Sud Europa.
AI e competenze digitali: il gap con la Spagna potrebbe aumentare
Proprio al confronto, almeno a grandi linee, in base agli elementi a disposizione, è bene rifarsi fin dalle fasi iniziali come queste. In particolare, a quello con la Spagna, tra i quattro considerati, sicuramente il Paese a noi più vicino per dimensione e ruolo. E che parte, tuttavia, da performance digitali decisamente migliori delle nostre (pur considerando il recupero dell’Italia negli ultimi anni, che ci fa stare nell’ultimo lustro nettamente in testa nella classifica degli overperforming countries, davanti a Germania e Irlanda).
L’edizione 2022 del DESI, pubblicata a fine luglio, vede la Spagna al settimo posto contro l’Italia al diciottesimo. Per intenderci, la Spagna non solo è il Paese dell’Europa del Sud che fa meglio (il Portogallo si piazza al quindicesimo posto, la Grecia al venticinquesimo) ma ha la classifica migliore tra i grandi Stati membri (la Francia e la Germania non vanno oltre il dodicesimo e il tredicesimo posto, rispettivamente).
Ebbene, se consideriamo che la Spagna ha scelto di accedere a molti meno fondi rispetto all’Italia, avendo rinunciato ai prestiti, che nel caso del nostro Paese pesano per circa il 64% delle risorse complessive provenienti dall’Europa, sui temi digitali il piano spagnolo spicca rispetto a quello italiano su almeno due aspetti tutt’altro che trascurabili.
In primo luogo, sfrutta il PNRR per rafforzare l’attuazione della Strategia nazionale sull’intelligenza artificiale. Alla quale, come nel caso italiano, è arrivata tardi, dopo che i piani degli Stati membri principali erano stati già pubblicati da alcuni anni. Ma mentre l’Italia nel novembre scorso ha varato un piano con orizzonte triennale, che non traguardava neppure il PNRR (per non dire il decennio digitale europeo), omettendo di dichiarare perfino il budget che vi avrebbe investito, la Spagna ha annunciato uno stanziamento monstre di 4,5 miliardi di euro, con 500 milioni di euro che si prevede arriveranno dal PNRR.
Da notare che, secondo gli indicatori DESI, per percentuale di imprese che utilizzano almeno una tecnologia AI, è vero che la Spagna non brilla al tredicesimo posto, ma l’Italia è solo sedicesima, dietro tutti i grandi Paesi.
Una parte di questo ritardo è senz’altro da attribuire a una carenza di competenze digitali (di base e specializzate). Da ricordare che, nella sezione del DESI che riguarda il capitale umano, la Spagna si classifica decima mentre l’Italia è al terzultimo posto (venticinquesima, davanti soltanto a Romania e Bulgaria).
Anche qui è tuttavia la Spagna a cogliere l’occasione del PNRR per attuare un “Piano nazionale per le competenze digitali”, finanziato con ben 3,6 miliardi di euro (una delle principali voci di spesa del piano spagnolo).
Ai e competenze, l’Italia manca di una visione generale
Nel primo caso (intelligenza artificiale) come nel secondo (competenze digitali) sono previsti evidentemente dei progetti anche nel piano italiano, sia pure sembrerebbe di importo inferiore a quello spagnolo (tenendo conto anche della disparità di risorse potenziali).
Tuttavia, nel caso italiano manca palesemente su questi due temi così decisivi per una trasformazione digitale di successo una visione generale, che invece c’è in altri capitoli (si pensi soprattutto alla connettività ma anche alla strategia cloud per la PA). E, per rispondere a una delle potenziali critiche (contano le riforme almeno tanto quanto gli investimenti), una delle misure chiave della strategia spagnola, presentata nei mesi scorsi a Bruxelles, è quella di una sandbox regolatoria particolarmente estesa verso chi sviluppa tecnologie AI sul suolo spagnolo. Misura particolarmente amata da startup e imprese innovative. Anche qui, d’altronde, toccherebbe darsi una sveglia, visto che gli unicorni spagnoli, cioè le aziende che valgono almeno 1 miliardo di dollari, sono secondo il DESI più del doppio di quelli italiani (12 contro 5). Ma in questa classifica, come in altre, il Sud Europa è ancora molto indietro. Basti pensare che nel marzo del 2022, periodo al quale i dati della Commissione si riferiscono, la Germania poteva contare su 58 unicorni, la Francia su 35, la Svezia su 30 e l’Olanda su 24.
Conclusioni
Grazie al PNRR e considerando anche gli altri fondi a disposizione di derivazione comunitaria che sono almeno parzialmente destinati alla transizione digitale (da Digital Europe a Horizon Europe fino ai fondi per la coesione di cui il Sud Europa è il principale beneficiario, insieme all’Est), l’Italia, insieme a Spagna, Grecia e Portogallo, ha un’opportunità unica da non farsi sfuggire: quella di mettersi alla pari con gli stati europei tecnologicamente più avanzati.
Per tradurre in realtà queste premesse, non serve meramente spendere i soldi che si riceveranno. Specialmente in Italia (ma non solo), ci si concentra molto sul rispetto delle tabelle di marcia per ottenere i fondi e spenderli. Una giusta attenzione di partenza, vista la fatica con la quale tradizionalmente utilizziamo i fondi europei. Ma che riflette un’ambizione troppo limitata rispetto all’obiettivo finale, che deve essere soprattutto quello di far fare al Paese quel salto in avanti in termini di produttività, crescita e innovazione che solo con le nostre forze non si riuscirebbe a compiere.
Qualsiasi governo arrivi dopo le elezioni del 25 settembre è bene se ne ricordi. E provi a lavorare a testa bassa per raggiungere quelle ambizioni che un grande Paese come l’Italia è giusto che abbia. E coerentemente realizzi.