L’applauso, nella sala delle Colonne del Museo della Scienza e della tecnica di Milano nella quale il 21 settembre il governo ha presentato il piano Industria 4.0, parte quando il ministero dello Sviluppo Economico Carlo Calenda annuncia l’iperammortamento al 250% sugli investimenti delle imprese in digitalizzazione: sono gli incentivi, evidentemente, la parte che maggiormente interessa il mondo imprenditoriale italiano, e sono anche la parte su cui il piano Industria 4.0 insiste maggiormente, insieme ai capitoli competenze e formazione, infrastrutture digitali.
Ma la sensazione è che in questo caso il Governo stia cercando di recuperare terreno rispetto a un mondo industriale che è più avanti. Le aziende già fanno Industry 4.0: «una fetta di imprese, quelle più esposte sul fronte internazionale, sono già partite in questa direzione. Hanno link con istituti di ricerca e con le università», dice Tomaso Tarozzi, ingegnere, vicepresidente di Confindustria Ravenna, riassumendo una sensazione che sembra diffusa nel parterre delle aziende che hanno partecipato all’evento. Certo, «il piano è come il formaggio sui maccheroni. Se queste misure saranno disponibili al 2017, c’è un salto di qualità importante». Ma c’è anche un richiamo alla prudenza: «bisogna vedere se abbiamo nelle gambe la capacità di fare dei passi così lunghi. Bisogna iniziare domani, io ci credo». Le due cose più importanti: la digitalizzazione, «una delle chiavi che cambia enormemente la possibilità delle aziende di operare sui mercati», e «il coraggio di investire sul nuovo, e quindi di avere risorse, ma anche determinazione e competenze. A questo secondo grande passo ci dobbiamo allenare». Un esempio di come la digitalizzazione sta rivoluzionando il modo di fare impresa: «pensiamo alla capacità di relazionarsi con i clienti, per coinvolgerli nello sviluppo di tecnologie e soluzioni che non sono raccontate a voce, ma trasferiti con contenuti sul cloud». In pratica, si progettano «insieme al cliente quando si fa la visita le sue soluzioni del futuro». Un bel cambiamento rispetto al “metodo tradizionale”, quando «inviamo qualche messaggero a fare visita al cliente per capire se in futuro avrà interesse verso l’azienda». Quindi la sfida, per chi lavora già sul campo, è più sui costi o sulla difficoltà di cambiare mentalità? L’hardware vuol dire soldi» esordisce, apprezzando la parte del piano che prevede di portare la fibra ottica a tutte le imprese. «ma poi bisogna coagulare su questo obiettivo diversi attori, a partire dai provider di comunicazione, oggi molto più attivi a fare il loro business e basta. Bisogna invece associarli a un disegno strategico più importante, che porterà risultati anche per loro. E bisogna mettere insieme regolamenti che consentano di fare queste opere». Poi, c’è il software, che deve servire ad applicare con intelligenza le potenzialità dell’hardware, «e qui bisogna far crescere la cultura in azienda».
Massimo Dal Checco, presidente del Gruppo ICT e servizi alle imprese di Assolombarda, si esprime a favore del piano, che definisce “interessantissimo”, sottolineando un punto in particolare: «il digitale viene riconosciuto a livello nazionale: siamo sempre stati l’ultima ruota del carro, cioè i fornitori dei servizi. Oggi, invece, siamo parte integrante di un piano industriale». E «abbiamo anche capito bene cosa dicevano i politici», scherza.
Una critica arriva da Gloria Domeghini, direttore Assimprendil-Ance. Premette che il piano è molto concreto, ma subito dopo rileva che mancano misure specifiche «per un settore fondamentale come le costruzioni, che ha esigenze diverse dalla manifattura classica». Esempi: piattaforme BIM ( Building Information Modelling/Management ), su cui ANCE ha presentato un progetto specifico. E un «sostegno per la digitalizzazione delle amministrazioni comunali» la cui burocrazia rappresenta «uno scoglio per le costruzioni». Nello specifico, «il governo deve destinare risorse per informatizzare i Comuni. Il codice appalti ha bloccato le gare, da aprile scorso». Il richiamo del ministero Calenda all’ottimismo necessario per gli imprenditori? «Siamo fiduciosi – specifica – e ottimisti, per forza, se no non saremmo imprenditori. Speriamo che anche la velocità sia 4.0».
Insomma, bene gli incentivi, che però non cambiano le decisioni delle aziende. Ci dev’essere una visione: è questo che chiede il mondo industriale. Il punto non è la tecnologia: è un cambio di cultura. E la necessità migliore gioco di squadra.
Gli economisti
Sulla necessità di fare squadra insiste parecchio anche Giacomo Vaciago, economista dell’Università Cattolica del Sacro Cuore: “Per gli italiani”, dice, “è una specie di mutazione genetica. Noi siamo bravi quando evitiamo il prossimo. l’Industria italiana deve fare squadra, collegarsi, essere parte di una rete. Queste cose di solito ci riescono male. Ora invece si tratta di costruire un collegamento forte fra pezzi di industria, con filiere che possano comprendere anche il resto del mondo». Non è poco, spiega, la sfida è molto ambiziosa. “Siamo nel terzo millennio, bisogna ragionare di conseguenza. Industria 4.0 vuol dire terzo millennio. Bisogna fare rete». Non solo da parte delle imprese, anche Comuni e Regioni devono impegnarsi.
E qui, interviene la seconda sfida, che riguarda le istituzioni. Ci vuole una semplificazione sistemica. L’economista ritiene, ad esempio, che anche la riforma della Costituzione serva a fare industria 4.0. In che modo? «Perché il Senato delle autonomie tira fuori dalla filiera il Senato. Il modello di Industry 4.0 è la Germania? Allora il senato deve fare il Bundesrat». In parole semplici, è necessario «un federalismo leggero», siamo in un paese «dove il Comune da solo non fa niente, perché ha fra i piedi la Provincia (anche se sono state abolite, ma è per fare un esempio chiaro), la Regione, Roma». Invece, ci vuole un “paese leggero, dove le reti si collegano senza troppi permessi». Continua: «quante volte negli Usa i governatori vanno alla casa Bianca? Mai. Quante volte i governatori italiani devono andare a Roma? Un sacco di tempo perso». Un paese leggero, invece, deve funzionare «con la velocità dei computer».
L’esempio vincente, nella tradizione italiana, è quello dei distretti, che rappresentano “la grande industria all’italiana”, con cui possiamo rispondere alla Germania. Bene i competence center, perché «ci serve un’università utile. Come si fa a sapere se è utile? Se è al servizio dell’economia e non di se stessa. E’ fondamentale che l’università sia collegata al territorio». Il modello è Stanford, nella Silicon Valley. Si concede una battuta: «Le università vanno fatte in mezzo ai campi», in modo che intorno ci sia “spazio” per l’industria, «non nei conventi dei centri storici». Il Politecnico di Milano, dice, quando è nato, era fuori città, in mezzo ai campi, perché attorno doveva nascere l’industria. Poi l’America ci ha copiato».
Fondamentale, il ruolo delle università, anche per vincere la sfida del lavoro, centrale quando si parla di Industria 4.0: «ci vogliono meno operai più ingegneri. Serve un lavoro più qualificato. La fabbrica intelligente è guidata da ingegneri intelligenti».
Anche Carlo Alberto Carnevale Maffè insiste su questi tasti. Dice quasi la stessa frase: «abbiamo bisogno di meno operai e di molti più ingegneri». Il piano gli piace, perché «fa due cose giuste: interviene senza bandi, quindi non è dirigista, ma stimola le imprese a scegliere il loro percorso, e punta moltissimo sulle competenze». Quindi, «la leva fiscale, e la leva del capitale umano» che è la sfida fondamentale da vincere nella fase che si apre adesso. Che è quella dell’execution. Qui anche i ministri Poletti (Lavoro, ndr), e Giannini (istruzione) devono fare la loro parte: se non si riparte dalla scuola, dal manufacturing all’industria, non si pur fare 4.0».
Le associazioni industriali
Questa precisa sfida (l’execution) è stata ben inquadrata da Gianfelice Rocca, presidente di Asslombarda, in sede di presentazione del piano: «è l’ultima chiamata per il manifatturiero italiano», dice. Il motivo? Negli ultimi anni, si sono creati 3 miliardi di valore aggiunto manifatturiero nel mondo: «metà l’ha preso la Cina, gli Usa sono cresciuti di 250 miliardi, la Germania di 60, la Corea di 100 mld. L’Italia ha perso 60 mld». «Noi abbiamo il 15% di manifatturiero sul pil», significa grosso rischio di deindustrializzazione precoce. La soluzione? In primis, la partnership pubblico privato, prevista dal piano, l”impegno delle imprese. Tenendo presente che «il manifatturiero è vitale». Altro problema, la piccola dimensione delle imprese.
In Lombardia, le imprese con più di 200 dipendenti crescono a ritmo tedesco, e sono sopra il picco del 5-6%. Le imprese fra 50 e 200 dipendente sono allineate al picco. Quelle sotto i 50 dipendenti sono sotto del 15-20%». Un punto a favore del sistema Italia, una grande capacità nell’innovazione combinatoria: «abbiamo una densità di brevetti minore di quella tedesca, ma una grande capacità combinatoria. E questa è una rivoluzione combinatoria».
Elio Catania, presidente di Confindustria digitale, insiste sulla necessità di «fare diventare l’innovazione digitale un fattore sistemico», sul fare rete, sull’execution.
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Paolo Galassi, presidente di API, insiste su alcuni punti: «la scuola è fondamentale, e deve avere un rapporto con l’impresa» E poi, si impara andando a conoscere altre realtà: «io ho studiato anche all’estero, in Francia. E giro il mondo». Bene le infrastrutture (la banda larga), accento sulla necessità del focus sulle PMI. In generale, il piano è un «grandissimo passo avanti, speriamo che incida sulla divulgazione delle nuove tecnologie sul sistema e sul territorio italiano». Un punto su cui insiste: i brevetti. «Gli stranieri vengono a comprare in Italia quello che noi svendiamo, ci comprano i brevetti, perché da noi manca una vera tutela del prodotto e del marchio». Le PMi non brevettano, «perché hanno paura che gli altri copino. Tutelare un brevetto in Italia è difficile. Il prodotto dura 4 o 5 anni, poi viene copiato. C’è bisogno di cultura di lungo periodo». Insiste su un concetto che è uno dei punti chiave del piano: l’execution. Il problema, dice, «non è farci venire le idee, ma rendere il paese produttivo».
Paolo Manfredi, responsabile Innovazione di Confartigianato, è soddisfatto per il focus sulle PMI: «finalmente abbiamo un piano che fa leva sulla qualità e non sulla dimensione delle aziende. Altro punto a favore, il fatto che si ragioni su incentivi fiscali automatici anzichè sui bandi, perché «significa snellire molto il sistema, e introdurre criteri che non tagliano fuori le imprese artigiane». Buon accento su competenze, lavoro e riqualificazione imprese, sugli incentivi agli investimenti, al Made in Italy. Infine, importante il tema awarness. Ora, «si tratterà di capire se troveranno attuazione e se ci sarà spazio per l’innovazione delle imprese. La base di partenza è ottima».
Le donne
Un’ultima annotazione. In sala, alla presentazione del piano, nella vasta platea formata da imprenditori, decisioni maker, manager dei colossi digitali, docenti universitari, esperti, c’erano poche donne (poco più di una decina). Non è anche questa una sfida 4.0 per l’Italia industriale? Rispnde Domenghini: «ci sono poche donne tecnologicamente preparate per questo tipo di mestiere. Visto che si apre una nuova prospettiva di lavoro, le giovani donne possono però avere una nuova chance. Senza i giovani, in generale, non ce la facciamo, speriamo che si apra una prospettiva importante anche per le donne».