La rapidità del progresso, che consente agli oggetti più comuni di dialogare tra loro e con il mondo circostante, si sta rivelando l’apripista di un grandissimo numero di nuove applicazioni che promettono di migliorare la qualità della vita e di avere maggiori informazioni riguardo all’ambiente in cui questi oggetti si trovano. Per questo motivo, quando si affronta il tema dell’Internet of Things (IoT), occorre tenere a mente due parole chiave: progetto e realizzazione.
Secondo uno studio condotto da Cisco già nel 2013, l’IoT potrebbe subire un’ulteriore evoluzione, passando dalla connessione tra dispositivi al tentativo di connettere tutto ciò che esiste.
Però, al di là delle potenzialità che la diffusione dell’IoT promette di offrire, il rapido sviluppo delle nuove tecnologie evidenzia, in Italia, un ritardo cronicizzato nello stare al passo con i tempi. E con i competitor internazionali.
Non c’è dubbio che il Governo italiano abbia inviato qualche segnale positivo tramite il piano banda ultra larga e le task force sulle smart city. Ma il rischio è che questi progetti non siano sufficienti. Infatti il processo di digitalizzazione e automazione del nostro Paese non può prescindere dall’implementazione contestuale di vere e proprie politiche di sviluppo che coinvolgano, tra gli altri, la scuola e il lavoro.
Il primo ostacolo all’implementazione dell’IoT risiede nella diffusione della banda ultralarga dove c’è un importante divario da colmare rispetto ai Paesi dell’Unione Europea. Il problema principale riguarda i tempi eccessivamente lunghi per il rilascio dei permessi da parte degli enti proprietari delle aree interessate dalla realizzazione delle nuove infrastrutture, e questo nonostante l’intervento pubblico sia riuscito a ridurre il digital divide riferito alla banda larga nel nostro Paese, stando alla relazione della Corte dei Conti sull’attività del Mise nel periodo 2007-2015. Per intenderci, se nel 2005 il divario broadband ammontava al 15%, a fine 2015 questo si era ridotto all’1,03%, con una riduzione del 13,97%. Tuttavia il piano nazionale per la creazione delle infrastrutture a banda larga, che secondo le previsioni avrebbe dovuto essere realizzato tra il 2011 e il 2013, presenta un ritardo importante, e questo proprio a causa della matassa burocratica per il rilascio dei permessi da parte di comuni, province, Anas e la Rete ferroviaria italiana. La durata eccessiva dei procedimenti rimane comunque solo una parte del problema, perché parte del rallentamento è da imputare ai contenziosi instaurati dalle imprese partecipanti alle gare d’appalto, all’erogazione discontinua delle risorse finanziarie occorrenti e alla realizzazione di opere originariamente non preventivate.
Come abbiamo suggerito noi di Competere, nelle nostre 9 proposte per la diffusione dell’IoT, è necessario deregolamentare per ridurre la sovrapposizione di leggi, tipica dell’amministrazione italiana, e snellire al massimo il carrozzone burocratico. All’alba del 2017 il nostro Paese non può permettersi di restare ancorato al passato, per questo, oltre a ridurre il numero di leggi, sarebbe auspicabile rendere le previsioni di legge tecnologicamente neutre dal momento che nessuno è in grado di affermare con certezza, fra qualche mese, quale potrebbe essere la tecnologia migliore da usare per risolvere un problema.
Un secondo ostacolo alla diffusione dell’IoT riguarda l’organizzazione interna delle aziende e la bassa propensione al cambiamento di molte imprese italiane. In diversi casi, per aggirare l’ostacolo, sono state create unità ad hoc, che però non rappresentano un progetto lungimirante. L’IoT, infatti, richiede un ripensamento delle professioni e un adeguamento delle competenze di coloro che risultano già occupati, e non basta gestire in maniera trasversale i progetti IoT, ma occorre investire nella formazione del management e nella comunicazione per spiegare agli utenti le nuove modalità di fruizione dei servizi pubblici. Nell’implementazione dell’IoT a livello aziendale, prendere come riferimento le PMI italiane, cioè le aziende che vanno dai 10 ai 250 dipendenti, restituisce un quadro emblematico della criticità della situazione. Stando ai dati raccolti dall’Osservatorio del Politecnico di Milano, per l’anno 2016 troviamo solo un 8% delle aziende italiane pienamente digitalizzate, collocandosi a un alto livello di maturità, mentre il 26% è in una fase iniziale di valutazione dei benefici. Situazione completamente differente per il restante 66% delle aziende analizzate che non solo non adottano nessuna tecnologia di analisi dei dati, ma non possiedono nemmeno la minima idea delle opportunità che potrebbero ricevere dalla digitalizzazione. In Italia esistono ancora tipologie di imprese, soprattutto nel settore manifatturiero, a carattere familiare dove la verticalizzazione delle decisioni resta ancora in mano ad una sola persona e si fatica molto a far passare il concetto di innovazione digitale, con tutti i benefici annessi, a dimostrazione di come non sia ancora partita una fase di digitalizzazione effettivamente collegata al business.
L’IoT è un mercato emergente e come tale va valutato, alla luce dei rischi e opportunità. Proprio per queste ragioni, gran parte del suo potenziale positivo, in termini economici ma anche e soprattutto sociali, deriva dal tipo di regolamentazione che si sceglie di attuare. La maggior parte delle nuove tecnologie vengono viste con sospetto e cedere a questa incertezza sarebbe un errore fatale dalla parte dei decisori pubblici, poiché finirebbe con il porre un freno all’innovazione scientifica e non recuperare più il gap tecnologico che ci distanzia dagli altri soggetti internazionali. Occorre alimentare un circolo virtuoso, fatto di continui investimenti nel mercato dell’IoT per ottenere tecnologie sempre più performanti che permetterebbero di raccogliere dati precisi e puntuali. Infatti l’utilizzo di dati migliori garantirebbe un monitoraggio più attento ai processi interni e una maggiore resa produttiva.
È proprio alla luce di quest’ultima considerazione che emerge in tutta la sua urgenza la creazione di una roadmap strategica per favorire l’implementazione e la diffusione dell’IoT in ambito pubblico, creando le migliori condizioni affinché il privato operi in modo competitivo. Le istituzioni potrebbero, così facendo, coinvolgere settori specifici che siano in grado di sviluppare azioni mirate a beneficio di determinate filiere industriali. Inoltre, la collaborazione tra settori pubblici e privati avrebbe un ulteriore beneficio, ossia ridurre il gap fra grandi e piccoli operatori a favore di realtà più piccole con budget limitati.
La costante connessione degli oggetti alla Rete potrebbe, non solo semplificarci la vita, ma renderla addirittura migliore. Basti pensare a cosa comporterebbe implementare l’IoT alla sanità. L’e-health è uno dei settori industriali che produce più innovazione, con un mercato potenziale di 60 miliardi di euro, di cui un terzo solo in Europa. Ciò significa che in Italia, la telemedicina consentirebbe un sostanzioso contenimento della spesa sanitaria con un contributo economico – indotto – significativo. E questo è solo un esempio.
Molto del successo di queste tecnologie dipende quindi da due elementi imprescindibili: l’alfabetizzazione informatica e dalla capacità di banda. Per quanto attiene l’alfabetizzazione informatica, il nodo da sciogliere è meno complesso per un’ovvietà demografica, il ricambio generazionale porterà gli individui a sentirsi sempre più vicini all’elettronica e al digitale, anche per quanto riguarda il tessuto imprenditoriale del nostro Paese. Il discorso si complica con la capacità di banda, per cui la realizzazione di reti ed infrastrutture adeguate si scontra con la muraglia burocratica. Se l’Italia non dovesse provvedere per tempo alla deregolamentazione amministrativa, ci giocheremo una grossa fetta del nostro rilancio economico.