Dopo aver indicato i nodi da sciogliere nell’Agenda, questa volta ci vogliamo esercitare in un compito di carattere propositivo, tentando di alimentare un’ipotetica “lista delle cose da fare”. Partendo da “Crescita 2.0”, ma senza dimenticare il resto della recente produzione normativa (“spending review”, “semplificazioni”) e il buon vecchio CAD ampiamente modificato e integrato da tutti questi provvedimenti.
Partiamo dall’inizio: il nostro Paese finalmente “ha” un’Agenda Digitale. Ed ogni anno, il Governo aggiornerà il Parlamento sulla sua attuazione e sulla sua evoluzione. Il “fantastico mondo del digitale” esce dalle nicchie e dagli anfratti dei “pochi addetti ai lavori” e diventa uno dei principali strumenti di cambiamento del Paese.
Le tecnologie dell’informazione e della comunicazione vengono definiti leve per la produttività e la competitività del Sistema Paese, riconoscendo finalmente la strategicità di un settore sinora relegato nelle retrovie.
Tutto bello, tutto fatto, dunque? Forse no. Forse manca qualcosa. A partire dalla testa: la governance.
Con la nomina del Direttore Generale dell’Agenzia per l’Italia Digitale abbiamo brillantemente risolto il problema di dare un vertice a chi ha il compito di attuare l’Agenda. Ma chi la scrive, l’Agenda?
Chi ne ha la paternità a livello politico? Chi, all’interno del Governo (questo, ma anche il prossimo) rappresenta la “controparte” delle associazioni di categoria a partire da Confindustria Digitale?
Questo Governo ha sparpagliato deleghe in materia di innovazione tecnologica in troppi ministeri e/o dipartimenti, favorendo involontariamente l’entropia.
Sentiamo la forte necessità di una sintesi a livello alto: una sorta di “Super CIO” a diretto riporto della Presidenza del Consiglio. Un sottosegretario, espressione dell’esecutivo (della “politica” nella sua accezione più nobile) dotato di poteri e di portafoglio.
Il neo DG dell’Agenzia, a nostro parere, non deve rivestire questo ruolo: egli è, tuttalpiù, il Chief Technology Officer, colui che ha la responsabilità delle scelte organizzative e tecnologiche a valle degli obiettivi strategici che devono rimanere saldamente in mano all’esecutivo.
Un ruolo centrale e delicato, un civil servant di rilievo, che potrà assolvere al meglio il suo compito soltanto se avrà un riferimento unico a livello governativo, non dovendosi barcamenare tra quattro-cinque ministri, un dedalo di sottosegretari, consiglieri e capi dipartimento.
Punto secondo: l’Agenda Digitale deve diventare un vero piano industriale. Partendo dagli obiettivi (che sono ormai ampiamente definiti) e arrivando alle strategie e alle modalità di approvvigionamento delle risorse necessarie alla sua attuazione.
Perché le risorse sono necessarie, eccome. Continuare il discorso della “innovazione a costo zero” (peraltro nella perpetuazione di un equivoco nato ai tempi del Ministro Brunetta, il quale ragionava e parlava in termini di “saldo zero”) equivale a fare della inutile demagogia. Niente costa zero, come ci insegnavano le nostre nonne: “se qualcuno ti regala una caramella, chiediti perché lo fa”.
Le esperienze internazionali di successo, le famose “best practices”, ci dimostrano che la PA e la Sanità possono recuperare efficienza ed efficacia, risparmiando miliardi di dollari o di euro, soltanto a fronte di investimenti consistenti.
Il Regno Unito, in dodici anni, ha investito qualcosa come 20 miliardi di sterline soltanto per la sanità digitale; più o meno la stessa cifra in Canada e in Spagna.
Germania e Francia spendono in Information Technology per la PA più del doppio di quanto si spende in Italia. Per non parlare dei paesi del Far East e del Nord Europa.
“Ma qui non abbiamo neppure un Euro”: ci sembra di sentire una voce arrivare da Via XX Settembre e dintorni. La solita cantilena di MEF e Ragioneria Generale dello Stato, pronte a stoppare ogni tentativo di dar vita a piani di investimento.
Che di euro in cassa non ce ne siano più, è un fatto noto. Ma non è questa una buona ragione per dire sempre e comunque “no”.
Torniamo al “Super CIO”: spetterebbe a lui, trovare una soluzione. Ad esempio, introducendo nuovi meccanismi di public procurement capaci di autofinanziarsi grazie ai saving sui costi ottenuti. Col meraviglioso effetto secondario dato dalla forte responsabilizzazione dei fornitori: “se grazie alle tecnologie che ci fornisci ed ai processi che ci reingegnerizzi noi risparmiamo, allora ti paghiamo”.
Esiste, in natura, un’industria IT fatta di aziende (grandi e piccole, multinazionali e iperlocali) capaci di accogliere una sfida di questo genere. Esiste, e va aiutata. Così come vanno aiutate (e qui, un piccolo spazio per un plauso al notevole lavoro fatto dal Ministro Passera e dai suoi più stretti collaboratori) le mille start up innovative e i mille spin-off universitari (come ben sa anche il Ministro Profumo, che nella sua “vita precedente” ha avuto molto a che fare con incubatori e incubati) che possono contribuire con idee e progetti ad altissimo potenziale.
Esiste, infine, una PA desiderosa di cambiare registro: è composta da centinaia, migliaia di persone che lavorano in condizioni non facili, ma che lo fanno con entusiasmo e determinazione. Idem in Sanità, dove si annoverano decine di interessanti esperienze che non aspettano altro che essere riusate.
Punto terzo: aboliamo la parola “sperimentazione”. Abbiamo iniziato a sperimentare tredici-quattordici anni fa, con Bassanini Ministro della Funzione Pubblica. Abbiamo speso quantità notevoli di soldi pubblici per produrre qualsiasi tipo di sperimentazione.
Adesso, si tratta di consolidare. Riusare, mettere a fattor comune esperienze e tecnologie, razionalizzare la selva di data center sparsi per tutta l’Italia. Il Cloud, in tutto questo, ha un ruolo determinante. A patto di saperlo governare, di evitare l’abdicazione a favore degli “Over the Top”.
Punto quarto: la privacy. I sacrosanti diritti di ciascuno di noi in materia di protezione dei dati personali non possono diventare un ostacolo. Nessuno, crediamo, ha intenzione di dare in pasto ai social network le cartelle cliniche o altri dati personali e sensibili inerenti singoli cittadini e/o imprese.
Ma continuare a frapporre cavilli e postille a qualsiasi tentativo di innovazione, di certo non aiuta. Anche in questo caso, copiamo dalle “best practices”: l’introduzione del paradigma di “opt-out” all’interno dei piani di sanità elettronica (tanto per fare un esempio) ha contribuito in maniera determinante al successo dei progetti di Fascicolo Sanitario Elettronico in UK e in Canada.
Punto quinto: norme rigide per l’armonizzazione dei sistemi informativi degli enti della PA.
“Armonizzazione”, non “software unico di Stato”, si badi bene. Sembra banale, eppure non lo è.
Nelle bozze “intermedie” del decreto “Crescita 2.0”, ad esempio, ha avuto vita breve un articolo che prevedeva l’obbligatorietà dell’armonizzazione dei sistemi amministrativo-contabili delle Aziende Sanitarie e Ospedaliere (principio peraltro già sancito dal decreto 118 “Federalismo fiscale”). Perché è sparito? Nessuno lo sa. Eppure, come rileva anche la Corte dei Conti, il problema della forte eterogeneità dei sistemi amministrativo-contabili in Sanità produce forti ritardi nell’azione di controllo e vigilanza, oltre a rendere “epico” il lavoro di predisposizione dei bilanci consolidati dei sistemi sanitari regionali.
Infine, i fornitori. Aziende di ogni dimensione, dalla grande multinazionale IT alla microimpresa, che da anni lavorano con e per la PA e la Sanità aggiungendo al “bagaglio standard” di fardelli burocratici due ulteriori elementi di forte criticità: l’assurdità delle gare al massimo ribasso (ancora troppo diffuse) e i tempi biblici di pagamento.
In un simile scenario, nessuno ha più voglia di investire. E a causa di ciò, la PA e la Sanità continuano a comprare prodotti e servizi in molti casi caratterizzati da una certa obsolescenza. Le branch italiane delle multinazionali, infine, faticano a spiegare alle rispettive case madri le logiche “nostrane” del public procurement.
Tutto questo non aiuta di certo lo sviluppo di un’Agenda Digitale che non può non fondarsi su un “nuovo patto” fra domanda e offerta.
Nota bene, questi consigli sottindendono una cosa: il giudizio sul decreto “Crescita 2.0”, con particolare riferimento alle sezioni che si occupano di Agenda Digitale, è più che positivo. Assolutamente vero che si poteva osare molto di più, ma tant’è: scrivere un decreto “a forte impatto”, e farlo in un Paese la cui architettura istituzionale è decisamente ridondante (per usare un eufemismo), non è un lavoro per anime candide. Chiunque abbia avuto modo di seguire l’iter preliminare del decreto, potendo leggere le varie bozze che si sono via via alternate, sa di cosa stiamo parlando: la mannaia della copertura finanziaria, qualche “capriccio” di Regioni ed enti locali, qualche azione di lobby ben assestata hanno contribuito a incrementare la confusione intorno alla quale si sono mossi gli estensori del decreto.
Vedremo ora, nei meno di due mesi che ci separano dal voto di conversione in Parlamento, quali e quanti saranno i miglioramenti che si spera vengano apportati.
Il governo centrale e, seppure in misura minore, i governi regionali sono sottoposti a una sorta di “stress test”: le comunità politiche e finanziarie internazionali da una parte, i cittadini dall’altra, spingono nella direzione di una profonda riorganizzazione della pubblica amministrazione alla ricerca di efficienza e razionalizzazione della spesa; la crisi di consenso della politica ha indubbiamente anche molto a che fare con la mancanza di accountability, oltre che col dilagare della corruzione; fenomeni come l’evasione fiscale e il ricorso sistematico all’abuso nell’accesso a prestazioni e pubblici servizi contribuiscono alla deriva del disavanzo secondario di bilancio.
Chiunque dotato di un minimo di conoscenza della macchina burocratica italiana è in grado di capire quanto una profonda (e sistematica) azione di digitalizzazione potrebbe contribuire a risolvere, in tutto o in parte, praticamente tutti gli aspetti critici elencati qui sopra. Eppure, si tentenna.