editoriale

L’Italia digitale dopo Renzi: banda larga, industry 4.0, pubblica amministrazione

Che succederà: ecco gli scenari che si stanno formando in queste ore. Facciamo il quadro alla luce degli ultimi eventi e delle riflessioni che si stanno scambiando dietro le quinte i decisori tecnico-politici nelle diverse strutture istituzionali

Pubblicato il 09 Dic 2016

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Piano banda ultra larga, industry 4.0, trasformazione digitale della pubblica amministrazione: che ne sarà di questi tre grandi dossier, dopo la caduta di Renzi? Proviamo qui a disegnare alcuni scenari, frutto di molti scambi di vedute che ho avuto negli ultimi giorni con diversi decisori tecnici (nel ministero dello Sviluppo economico e presso la Presidenza del Consiglio).

In sintesi, è certo l’ambito della pubblica amministrazione il più complicato e a rischio. Entrato com’è in uno stato di confusione massima sulla governance, proprio nel momento più delicato: quello dell’attuazione sul territorio. Quanto ai dossier banda ultra larga e industry 4.0 ci sono punti che richiedo attenzioni, ma l’impalcatura sembra più solida, primariamente perché c’è un numero ristretto di soggetti decisori coinvolti (la governance è più lineare).

Vediamo nel dettaglio.

PA digitale

Il quadro dei nodi aperti è lo stesso che avevamo già disegnato pochi giorni fa, con la differenza che le soluzioni ora sembrano più lontane e complesse. Ricordiamo (anche ponendoci sulle spalle dell’analisi fatta dall’Osservatorio Agenda Digitale del Polimi) che attuazione della trasformazione digitale della PA significa adesso tre livelli di azione. Primo: sviluppare progetti di livello nazionale (fare decollare davvero SPID, superare gli scogli dell’Anagrafe Unica, partire con la razionalizzazione dei datacenter, realizzare il modello Italia Login e delle API della PA). Secondo: accompagnare le PA locali nell’adesione ai progetti nazionali e allo sviluppo di servizi abilitati. Terzo: stimolare partnership con soggetti privati.

Per fare tutto questo servono due cose: una strategia che agisca sul territorio e con soggetti diversi (facendo leva su logiche win-win) e un forte commitment politico (utile da esercitare soprattutto quando la moral suasion non è sufficiente). Finora l’Agenzia per l’Italia Digitale ha lavorato con la prima di queste due cose in mano (e parzialmente, dato che la strategia non è ancora formalmente completa, mancando il piano triennale dell’IT pubblico). L’arrivo del commissario all’Agenda Digitale Diego Piacentini dava quello che l’Agenzia- essendo un organismo tecnico- non poteva avere intrinsecamente, ossia la seconda di queste due cose: un commitment politico forte.

Con la caduta di Renzi, questo filo si è spezzato e siamo tornati a un punto precedente. Possiamo contare su strutture tecniche (adesso due, al netto della funzione politica ormai incerta nella sostanza pur restando tutelata nella forma del decreto di nomina).

E la situazione resterà tale almeno fino alle prossime elezioni. Vediamo perché.

Piacentini non si dimetterà, a quanto risulta ad agendadigitale.eu. Dimettersi adesso non ha senso, nell’attesa di capire che tipo di commitment (ossia di garanzie di poter lavorare con efficacia) può ricevere dal prossimo governo.

Però qualunque governo arriverà adesso non potrà avere la forza trasformativa del precedente e di conseguenza non ne darà al commissario (anche ammesso che voglia darne). Piacentini, adesso, può solo sperare di ricevere sufficienti rassicurazioni dal prossimo Governo per poi sperare (di nuovo) che quello nato dalle future elezioni faccia lo stesso. Una doppia scommessa, insomma. Al contrario, per l’Agenzia cambia poco rispetto alla situazione in cui ha sempre operato. E quindi può continuare a operare come ha sempre fatto, con tecnica e tattica (più che una vera e profonda strategia nazionale condivisa, per la quale serve appunto un ponte forte con la politica).

Le condizioni di forte commitment che c’erano prima, insomma, si creerebbero solo quando il governo nato con le prossime elezioni sceglierà di impegnarsi con decisione sul digitale (qualunque sia il mezzo che sceglierà: di nuovo un commissario o un ministro dedicato).

In questo contesto storico mi sembra molto probabile che qualunque governo si impegni sul digitale almeno quanto ha fatto Renzi. Il problema principale è che passerà tempo (quanto ce ne ha messo Renzi stesso prima di accelerare con il commitment?), quindi anche i fattori saranno ottimali solo a 2017 inoltrato. Significa che avremo perso almeno sei mesi, rispetto alle condizioni di partenza.

Nel frattempo? Nel frattempo qualcosa può essere sempre fatto, dall’Agenzia e da (almeno per il momento) Piacentini. La strada (relativamente) più agevole al momento sembra quella di continuare a lavorare sulle PA locali, guidandole nell’adesione ai progetti nazionali e a sviluppare servizi. Il piano triennale è lo strumento principe per quest’opera, ma non arriverà prima di marzo (già era ufficialmente in ritardo prima della caduta di Renzi). Gli altri due tasselli centrali sono le regole attuative di due normative “cornice” molto importanti per disegnare il nuovo volto della PA: il Codice dell’Amministrazione Digitale e il Codice Appalti. Difficilmente arriveranno decreti a breve su quel fronte (data la situazione politica). Aspettiamoci invece regole tecniche, linee guida e circolari che in qualche modo possono indirizzare le amministrazioni. Una circolare dell’Agenzia potrebbe arrivare anche in questo interregno prima del piano triennale, per spiegare alle PA come spendere in innovazione evitando la tagliola prevista dalla scorsa legge di Stabilità (obbligo a dimezzare la spesa informatica non collegata al piano triennale).

Più complicata la partita dei grandi progetti nazionali, per cui servirebbe proprio quel forte commitment politico, che dal premier abbracci anche i ministeri (quello della Giustizia e dell’Interno finora sono andati avanti come isole e lo si è visto nei progetti dei diversi Processi Telematici e dell’Anagrafe Unica).

Il piano Scuola digitale potrebbe avere vita più facile, dato che si è mosso (con più luci che ombre) tutto intorno a un solo soggetto politico (il ministero). Anche qui però la stasi politica può rallentare l’attuazione, soprattutto nel campo della formazione.

L’asse pubblico-privato, tutto da costruire, in questa fase sembra un fantasma da afferrare per i capelli. I privati si possono coinvolgere con il mix di forte pressione politica (un po’ com’è stato per la nascita degli identity provider Spid senza un modello di business) e il coinvolgimento win-win (ossia facendo vedere ai privati un chiaro ritorno economico, per esempio con i servizi collegati alle API). Entrambi richiedono un forte impegno a livello centrale, in un senso o nell’altro.

Su tutto, si pone poi l’incognita della strategia cybersecurity, che adesso dovrà attendere ancora prima di dispiegarsi con efficacia. Anche qui, bisognerà sperare nella sensibilità del futuro governo dopo le elezioni.

Banda ultra larga e industry 4.0

Il piano banda ultra larga è già impostato, ma può subire ritardi. Sia nella fase di assegnazione dei bandi per realizzare la rete sia in quella attuativa vera e propria (che passa dal coinvolgimento dei Comuni).

Il primo bando per fare la rete pubblica (1,4 miliardi di euro) era previsto in assegnazione entro dicembre, ma è possibile che Infratel vorrà attendere l’arrivo del nuovo ministero allo Sviluppo economico. Tanto più che il soggetto in pole position per l’assegnazione- Enel- è sceso in campo con un chiaro commitment politico da parte del Governo.

Pure l’attuazione sul territorio (permessi, operazioni di scavo…) sarebbe più agevole se l’impegno politico è chiaro e forte, coordinato tra ministero e Regioni (com’è stato finora).

Restano aperti due dossier noti e importanti e che adesso rischiano ulteriori ritardi. Primo, l’incentivo alla domanda (l’orientamento ultimo era di concentrarlo sulle pmi). Secondo, la creazione di una rete “fibra nelle case” anche nel cluster B, dove ci sono piani degli operatori per “fibra fino agli armadi”. Le risorse pubbliche in tal senso erano già state individuate nel piano originario di 7 miliardi di euro, ma serve avviare una nuova interlocuzione dedicata con l’Europa (il principale caveat qui è il rischio di interferenza con gli investimenti fibra già fatti dagli operatori). I nuovi piani Tim-Fastweb ed Enel hanno ridotto l’area che rischiava di essere coperta solo da “fibra fino agli armadi”; va visto però, alla luce appunto del nuovo clima politico, se il piano Enel resterà invariato.

Qualche chiarimento e una dose di accompagnamento sono necessari anche per dare seguito al piano Industry 4.0, come abbiamo scritto oggi. In entrambi i casi la matassa sembra meno intricata rispetto al dossier PA digitale. E soprattutto gli scenari possibili sono più lineari.

Più chiari e condivisi sono, per altro, gli interessi-Paese sottostanti alla missione di dare a tutti banda ultra larga e innovare le nostre industrie. Senza né conflitti istituzionali né resistenze o inerzie al cambiamento da fronteggiare in campo aperto.

In conclusione

Ma un’altra riforma della PA è possibile. Meno centralizzata a Palazzo Chigi- forse il principale errore metodologico della visione Renzi- e già in nuce più condivisa sui territori. Elaborata con i diversi soggetti pubblici e privati che la devono attuare e vivere. Come dice Carlo Mochi Sismondi, presidente di FPA e storico osservatore del mondo PA, “può nascere un’amministrazione condivisa dove i cittadini, le imprese, i lavoratori pubblici e la politica lavorano tutti per obiettivi comuni e costruiscono una piattaforma abilitante per la nostra libertà positiva”. Le risorse in campo ci sono (e vanno subito inquadrate), la volontà delle pubbliche amministrazioni locali a cambiare è già più forte rispetto a quanto avveniva fino a qualche anno fa. Il seme dell’innovazione è stato piantato. Farlo crescere con cura e pazienza sarà compito di un prossimo governo, che dovrà essere capace di unire le due virtù distintive dei veri innovatori. Non solo una visione coraggiosa ma anche una attenzione inclusiva.

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