I social network come Instagram e Facebook sono sempre più usati dalla Cina per promuovere la bellezza naturale del Paese, le tradizioni della cultura, i progressi tecnologici e scientifici conseguiti negli ultimi anni. Ma è corretto parlare di queste operazioni atte a influenzare l’opinione pubblica, americana e non solo, in proprio favore come di “operazioni belliche non militari” e qual è il confine con una semplice campagna di autopromozione, come quelle portate avanti da altri Stati e organizzazioni?
Occorrerebbe allora, prima di giungere a conclusioni che rischiano di fare il gioco di chi si vuole osteggiare, individuare caratteristiche e indicatori idonei a circoscrivere l’uso bellico dei social media in ragione delle modalità e non dei fini dello stesso.
Il tema, alla luce della sempre più marcata contrapposizione tra Usa e Cina, è molto caldo, ed è stato trattato in un rapporto di Recorded Future di cui è interessante analizzare le conclusioni, come faremo di seguito dopo una breve ricostruzione dell’escalation della tensione tra le due superpotenze.
Usa vs Cina, una competizione sempre più intensa
La competizione tra Cina e USA, dopo decenni di confronto a bassa intensità, sta attraversando negli ultimi mesi una nuova stagione. Tra il 2018 e l’inizio del 2019, la comunità internazionale ha infatti assistito ad una brusca evoluzione delle modalità di confronto tra le due potenze, in particolar modo a livello mediatico.
Certo, nessuno si stupisce del fatto che tra i due attori di primo piano dello scacchiere geopolitico si verifichino attriti, probabilmente inevitabili e certamente prevedibili. Del resto, già da tempo gli analisti osservano con attenzione le relazioni tra i due Stati. Per lo meno da quando, nel 2012, sotto l’Amministrazione Obama, è emersa la volontà degli Stati Uniti di porre al centro delle proprie dinamiche strategiche il fronte Indo-Pacifico, a discapito di quello Atlantico. Addirittura, in un’analisi pubblicata su Limes 8/2015[1], è stato evidenziato come l’atteggiamento americano in estremo oriente facesse ritenere che si volessero ricalcare in quel teatro gli stessi schemi della guerra fredda.
Dal versante opposto, la Cina di Xi Jinping si è distinta, negli stessi anni, da un corso maggiormente assertivo ed ambizioso, promuovendosi come membro attivo della comunità internazionale e perseguendo apertamente i propri interessi regionali e non solo, identificati nel “sogno cinese” di risorgimento della nazione[2].
Tra la fine del 2018 e i primi mesi del 2019, poi, il caso internazionale dell’arresto di Meng Wanzhou, esploso dopo settimane di tensione dovuta alla guerra commerciale e diplomatica (la cosiddetta guerra dei dazi) tra Cina e USA, ha spinto il tema in cima alle prime pagine di media generalisti tradizionali e non, stimolando l’attenzione dell’opinione pubblica.
Il ruolo dell’Italia nel nuovo corso di Pechino
In Europa ed in Italia, inoltre, il 2019 ha visto le relazioni commerciali e diplomatiche con la Cina conquistare il centro delle agende di politica estera per due temi fra loro interconnessi. Da un lato il dibattito in merito allo sviluppo ed all’implementazione delle infrastrutture necessarie alla distribuzione della tecnologia 5G, che ha visto l’Italia (come altri Paesi membri dell’UE) interessata alla collaborazione con Huawei e ZTE, colossi cinesi dell’hi-tech, suscitando la preoccupazione dell’amministrazione Trump, intenta ad ostacolare possibili rischi di penetrazione dell’intelligence cinese nelle infrastrutture critiche atlantiche. Per altro verso, più in generale, hanno creato fibrillazioni le iniziative diplomatiche di Pechino connesse alla Belt and Road Initiative, manovra cruciale nel disegno di rinascita cinese del presidente Xi. In particolare, la visita del Presidente Xi Jinping in Italia e la connessa firma di un Memorandum of Understanding tra i due Paesi, oltre all’attivazione di numerose partnership commerciali in campi anche strategici, sono state accolte con disappunto dagli USA, dall’UE e da Francia e Germania, preoccupate che l’Italia (la cui politica estera è al momento estranea a schemi facilmente prevedibili) possa diventare un grimaldello qualificato per lo sdoganamento di un’influenza geopolitica ad ampio raggio della Cina in UE. Il rischio, agli occhi di USA, UE ed altri, è di natura strategica (economica e di intelligence il che, oggi, significa anche bellica, pur in senso non strettamente militare[3]) ma viene declinato da alcuni anche sul piano culturale, come ad esempio viene proposto nell’articolo di Franco Pizzetti “Società Digitale, perché il GDPR è presidio dei diritti fondamentali”[4] incentrato sul tema della privacy.
Vie della seta digitali: dall’Italia scelta politica verso un accordo Ue
Le preoccupazioni generate dalla conflittualità di cui si è detto si riflettono, per loro natura, anche nel dibattito pubblico, tanto più che, come detto, investono frontalmente anche tematiche culturali e hanno acquisito spazio anche su media tradizionali e non, come giornali e social media.
Social media e propaganda
Per queste ragioni è certamente interessante soffermarsi nella lettura di ricerche relative all’utilizzo dei social media, in chiave propagandistica e di intelligence, da parte degli attori maggiormente impegnati nel confronto strategico e di modelli socioculturali a livello globale.
In questo ambito si innesta l’analisi esposta nel rapporto “Beyond Hybrid War: How China Exploits Social Media to Sway American Opinion“[5] sulle strategie adottate dalla Cina per utilizzare i social media al fine di influenzare l’opinione pubblica americana in senso ad essa favorevole. L’analisi è particolarmente rilevante se si pensa che ormai da tempo si parla di psychographics e di informazione personalizzata, contrapposta a quella di massa, fondata sulla big data analytics e altamente efficace in fatto di persuasione[6].
La tesi centrale del rapporto è che l’approccio cinese alle campagne di influenza via social, definite “influence operations”[7], si differenzi profondamente da quello adottato in precedenza da altri Stati, ed in particolare dalla Russia. Infatti, a differenza dei messaggi definiti “dirompenti” e “destabilizzanti” propagandati da media ritenuti agenti di influenza a beneficio russo, quello cinese sarebbe un messaggio “positivo, cooperativo e benigno”. La Russia sarebbe mossa dal primario obiettivo di “creare un sistema internazionale policentrico in cui gli interessi e gli obiettivi politici russi siano supportati e rispettati”, che la porterebbe a porre in essere influence operations orientate a “destabilizzare, erodere la fiducia promuovere il caos e fomentare lo scontento popolare”.
La Cina, diversamente, sarebbe mossa dal desiderio di promuovere una “visione empatica del governo, delle politiche, della società e della cultura cinese”, facilitando l’obiettivo di accrescere l’influenza cinese nel sistema internazionale e veicolare l’idea che il “sogno cinese” sia positivo per la comunità internazionale.
Per farlo, l’amministrazione cinese si avvarrebbe di agenzie stampa il cui profilo sarebbe tale da dissimulare la propria natura propagandistica, se non, come afferma il report di “estensioni del servizio di intelligence civile cinese”.
Autopromozione o intelligence?
Quanto alle tecniche utilizzate, la casistica analizzata ricomprende l’uso di Instagram finalizzato a diffondere temi quali la vasta bellezza naturale della Cina, le affascinanti tradizioni della cultura cinese o l’impatto positivo che la Cina sta avendo in ambito scientifico, tecnologico o sportivo.
Anche l’utilizzo di contenuti “sponsorizzati” su Facebook avrebbe un ruolo centrale, soprattutto dal momento che, in base alle conclusioni del report, tali contenuti sarebbero declinati in maniera tale da non essere considerati da Facebook a contenuto politico. Quest’ultima circostanza contribuirebbe a conferire credibilità ai contenuti, facendoli apparire non faziosi, dal momento che gli utenti vedono transitare questi post nelle loro bacheche senza essere allertati sulla natura propagandistica degli stessi.
Ciò detto, è interessante riflettere sulle conclusioni del rapporto in esame. Infatti, è indubitabile che ogni organizzazione, pubblica o privata, dotata di risorse e strumenti idonei si stia attrezzando per sfruttare le enormi potenzialità persuasive su scala collettiva dei social network. Occorre però definire in quali circostanze tale uso debba essere ritenuto carico di disvalore e in quali no. Il tema è affine a quello delle cosiddette fake news,
Nelle conclusioni del rapporto si legge che i media cinesi starebbero “sfruttando l’apertura della società democratica americana e inserendo una narrativa intenzionalmente distorta e pregiudiziale per ragioni politiche ostili”.
Il rapporto, poi, prosegue nel sostenere che tale azione sarebbe particolarmente efficace per una serie di circostanze tra le quali l’incapacità degli utenti di giudicare autonomamente la veridicità delle notizie, la sovrastimolazione informativa, l’impossibilità di verificare le fonti citate.
Ciò che tuttavia rileva è che tali circostanze descrivono perfettamente la condizione dell’utente medio relativamente alla fruizione di qualunque contenuto via social network.
Indubbiamente occorre sensibilizzare l’opinione pubblica in merito all’utilizzo interessato che attori mossi da interessi politici o commerciali potrebbero fare dei social network, sottolineando l’attitudine di questi mezzi a veicolare contenuti idonei a condizionare le opinioni individuali su larga scala mediante tecniche di persuasione scientifiche fondate sull’analisi di big data.
Allo stesso modo, è importante che il network nazionale di intelligence e ogni altro operatore che componga il “sistema immunitario” del Paese sia conscio di come portatori di interessi incompatibili con quelli nazionali possano utilizzare gli strumenti messi a disposizione dalla tecnologia per promuovere i propri particolari interessi.
Occorre tuttavia distinguere con cautela le operazioni belliche non militari, anche laddove abbiano forma di influence operations veicolate tramite social network, da mere campagne di autopromozione. Queste ultime, infatti sono legittime e trasversali e non possono essere biasimate solo quando a proporle siano soggetti diversi da quelli che si ritengono alleati o graditi. Lo sforzo è, dunque, quello di individuare caratteristiche e indicatori idonei a circoscrivere l’uso bellico dei social media in ragione delle modalità e non dei fini dello stesso.
Solo allora potranno essere biasimate liberamente le condotte che integrano la fattispecie delineata, da chiunque siano messe in atto, senza rischiare di perdere credibilità agli occhi della stessa opinione pubblica, col rischio ulteriore di conferire ancor più credibilità a chi si vorrebbe osteggiare.
__________________________________________________________________
- Cfr. F. Mini, Quel che l’America non capisce dell’Asia, Limes, 8/2015, p. 9 ↑
- Per un’analisi approfondita dell’argomento si veda Limes 4/2018, parte II, Cina versus USA nell’Indo-Pacifico; per un approfondimento generale ed aggiornato sull’atteggiamento geopolitico cinese e sulle implicazioni dello stesso si veda l’intero Limes 11/2018, non tutte le Cine sono di Xi. ↑
- Cfr. Liang Quiao, Xiangsui Wang, Guerra senza limiti, edito in Italia a cura di F. Mini, Guerra senza limiti, l’arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione. ↑
- Cfr. F. Pizzetti, “Società Digitale, perché il GDPR è presidio dei diritti fondamentali”, su Agendadigitale.eu, 13 febbraio 2019↑
- Realizzato da Recorded Future ↑
- Cfr. intervento di Alexander Nix (prima dello scandalo che ha coinvolto Cambridge Analytica) reperibile su youtube e studi sulla persuasione di R. Cialdini, in particolare R. Cialdini, Le armi della persuasione, Giunti, 2015 ↑
- La cui definizione puntuale offerta dal rapporto è “the collection of tactical information about an adversary as well as the dissemination of propaganda in pursuit of a competitive advantage over an opponent”. Cfr . rapp, cit. p. 4. ↑