Se un Paese si dovesse giudicare dai messaggi delle campagne elettorali, povera Italia.
Nessuna persona dotata di passaporto di questo Paese e di buona salute mentale poteva credere che il digitale potesse avere un ruolo in campagna elettorale.
Impossibile, se si resta all’interno del frame secondo cui il digitale è l’anti-pancia per eccellenza: veicolo di razionalità e di trasparenza. Laddove invece il populismo usa il linguaggio della rabbia (in negativo) o (in positivo) del sogno. In un universo parallelo, gli illuministi avrebbero abbracciato il digitale per fare la propria rivoluzione contro l’oscurantismo.
Ma viviamo tempi confusi, dove chi parla alla testa del Paese non ha cittadinanza. Di qui il paradosso dei tanti esperti che in coro, inascoltati, dicono come il digitale è condizione facilitante per risolvere tanti dei mali che ora si rincorrono in campagna elettorale. Ce lo dice con forza e chiarezza Luciano Floridi, uno dei massimi filosofi in grado di raccontare il nostro tempo.
È proprio un errore intellettuale considerare il digitale come un settore a sé, invece che una cifra che si applica ormai a tutto. La disoccupazione intellettuale che attanaglia l’Italia, il basso numero di laureati e la debole offerta di lavori ad alta specializzazione – di cui parla in questi giorni l’Istat – sono tre elementi dove si riflette il declino del Paese. Tra i più colpiti dalla crisi, in termini di perdita di Pil, in aerea Ocse. Ma il declino è cominciato prima: ci sono analisti che lo correlano con la perdita del treno dell’innovazione– sottovalutata da una classe politica e da una società vecchia e non meritocratica.
Ecco, il timore – o meglio, il terrore – è che siamo ancora intrappolati in questo errore.
La speranza invece è che il nuovo Governo si dimostrerà più lungimirante (meno populista) di quanto ora traspaia dalla chiassosa e sguaiata campagna.
Elezioni 2018 e digitale, l’analisi di tutti i programmi dei partiti
Elezioni 2018 e digitale: il bilancio
A beneficio di questa prospettiva, Agendadigitale.eu – come le altre testate del gruppo Digital360 – nelle scorse settimane ha pubblicato contributi di numerosi esperti sulle scelte politiche da fare sul (e con) il digitale.
Il bilancio complessivo, se è possibile trarne uno, è che ci sono due grandi dossier.
- Il primo riguarda tutte le trasformazioni promettenti, avviate con relativo successo dal Governo e che ora bisogna proteggere, accudire, portare a compimento. Il piano banda ultra larga, la Scuola digitale, Industry 4.0, la dematerializzazione-fattura elettronica.
- Altri ambiti sono state (più o meno compiutamente) delineati nelle norme ma solo abbozzate nella realtà: i temi della Cittadinanza digitale (vedi il Cad), la riforma degli acquisti pubblici (Codice appalti), della giustizia digitale. La cybersecurity nazionale (forse il tema più trascurato tra quelli più urgenti). Potremmo mettere in questa categoria anche la Sanità, anche se fa un po’ eccezione: le riforme avanzano solo in certe regioni, in assenza di un coordinamento centrale.
Che è poi, in assoluto, il principale vulnus dell’Agenda digitale italiana segnalato dagli esperti.
Da dove partire per risolvere?
Prima di tutto, ci sentiamo ci consigliare di evitare la tentazione del buttare via tutto, del ripartire di nuovo da zero, di scrivere ancora norme. Si tracci una linea per individuare le cose positive, istituite dalla legislatura 2013-2018 e le si porti a compimento. Sui progetti digitali che non hanno ancora dato frutti nella realtà, bisogna invece fare distinzioni. E chiedersi quali sono i casi in cui i flop sono dipesi da scarsa volontà politica e quali quelli in cui ci sono problemi nell’impianto stesso dei progetti.
Che cosa serve per risolvere?
Tra i tanti ingredienti necessari, uno su tutti sta emergendo come fondamentale, in questa fase, nelle analisi degli esperti di digitale. E sono le competenze. Necessarie per cambiare il modo in cui lavorano e acquistano la PA e le nostre aziende (in Industry 4.0). Centrali per un vero progetto di riforma dell’insegnamento, per adeguarlo ai nostri tempi. Non a caso Paolo Coppola (PD), tra i politici che più hanno compreso i mali (digitali) dell’Italia, aveva messo le competenze (della PA) al centro di un disegno di legge poi abortito (per colpa della solita insipienza della nostra politica, di cui sopra).
E il deficit di competenze ci riaggancia di nuovo ai problemi strutturali di cui parla l’Istat.
Qualunque sia il nuovo Governo, quindi, si ponga innanzitutto il tema di investire in competenze, materia prima del cambiamento. Altrimenti, se non si avrà la forza di guardare a quanto per molti esperti è ormai ovvio, tanto vale arrenderci al declino, non solo digitale, del nostro Paese.