Prendo spunto dal lavoro di MCC Worldwide Digital Consulting (“Osservatorio sulle politiche per il digitale”, nella versione aggiornata al 21 gennaio 2013) per tentare di stilare una sorta di “wish list” da sottoporre ai candidati e – perché no – direttamente ai partiti e movimenti politici protagonisti di questa campagna elettorale.
Marco Camisani Calzolari e i suoi collaboratori, forse con qualche approssimazione nella definizione dei criteri di ponderazione dei diversi “item”, ci rappresentano uno scenario all’interno del quale i partiti in lizza appaiono piuttosto “tiepidi” rispetto al tema. Nel capitolo di sintesi finale, si parla esplicitamente di “assenza di una strategia complessiva per affrontare il comparto digitale”, e di uso più o meno consapevolmente capzioso di parole chiave disseminate qua e là nei programmi elettorali a mo’ di specchietto per allodole.
Affermazione di per sé non lontanissima dalla realtà, soprattutto se ci si riferisce a concetti “omnibus” quali le Smart Cities o la banda larga: è evidente che nessuno degli elettori ambisce a una vita in una città non intelligente e senza accesso ultraveloce alla Rete. E’ un po’ come la pace nel mondo nei discorsi delle neo Miss Italia: nessuna di loro si sognerebbe di rilasciare la sua prima intervista dicendo “adoro la guerra”.
I programmi elettorali, si sa, sono concentrati di promesse generaliste e nazional-popolari. E, oggi come oggi, non puoi scrivere un programma senza citare il cloud o l’open government. Se non lo fai, “sei fuori”, direbbe Briatore.
Oppure (ed è questa la nostra chiave di lettura), non lo fai perché non è questa la sede più appropriata per scendere in tecnicismi più o meno elitari.
Camisani Calzolari e i suoi, per fare un esempio, si scandalizzano per l’assenza del “Big Data” come tema di campagna elettorale. Trascurando di dire che il tema “lotta all’evasione fiscale” risulta centrale nell’agenda di numerosi partiti politici, e che il “Big Data” è un elemento implicito all’interno del tema stesso (tanto per fare un esempio).
Ritengo che sia assai poco importante sapere se il partito X cita o no la riduzione del digital divide nel proprio programma elettorale. Anche perché alla Signora Maria o all’Imprenditore Tizio interessa maggiormente sapere se ci sarà o no una nuova manovra, se verrà rimodulata l’IMU sulla prima casa, eccetera.
Il problema non è, quindi, contare a mo’ di buzzword le ricorrenze delle paroline magiche all’interno dei programmi elettorali, quanto piuttosto quello di sapere chi tra i candidati ha in mente le 4-5 cose da fare per mettere il Paese in condizione di giocarsela col resto del mondo sui tavoli della competizione industriale, dell’equità fiscale, dell’etica pubblica, eccetera.
Ha forse più senso, a questo punto, che i candidati a governarci prendano confidenza non tanto con gli slogan (“più banda per tutti”, “un router in ogni casa”, “smart e open laqualunque”) quanto piuttosto con la lista delle cose da fare non appena arrivati nella stanza dei bottoni (che già di per sé suona ormai obsoleta: a noi piace immaginare una stanza senza bottoni, basta un mouse o una superficie touch).
Ed eccola, la lista. O, quantomeno, un primo elenco di cose concrete da fare. A ciascuno di noi/voi il compito di completarla a piacere.
Primo: riformare il public procurement. Qualsiasi piano per l’Italia Digitale, fosse anche scritto da un dio, non può rischiare di schiantarsi contro il mondo kafkiano delle buste sigillate con la ceralacca e della fotocopia della carta di identità del legale rappresentante non regolarmente inserita nella busta “A”. Una PA che impiega un anno (al netto da eventuali ricorsi) per aggiudicare la fornitura di un sistema informativo non può farcela in nessun caso. Meno che mai se poi l’aggiudicazione va a favore del miglior prezzo e/o dell’offerta tecnica scritta in rigorosa osservanza del capitolato e chissenefrega se ci sono o no spunti innovativi e proposte migliorative.
Secondo: considerare come un valore assoluto l’ecosistema cliente/fornitore. Affrontare un investimento è un’operazione vincente soltanto se chi compra e chi vende si guardano negli occhi e capiscono di essere sulla stessa barca. Il “fornitore” non è un simpatico soggetto da sottoporre a tortura, il “direttore dei lavori” non è un cerbero.
Terzo: sdoganare, una volta per sempre, le forme innovative di partenariato pubblico-privato. Il compratore mette a gara la soluzione a un suo problema, il venditore si aggiudica il dovere di risolvere il problema e viene pagato a raggiungimento dell’obiettivo. Lo si fa in mezzo mondo, chissà perché non lo possiamo fare anche qui in Italia.
Quarto: l’Agenda Digitale non è un fine. E’ un mezzo per la crescita del Paese, uno strumento che funziona soltanto se agisce di pari passo con una profonda revisione dei processi di produzione dei servizi della PA.
Digitalizzare l’assurdo significa renderlo assurdo al quadrato. Qualche informatico in meno, qualche ingegnere gestionale in più; qualche flowchart in meno, qualche business plan in più.
Quinto: lasciate lavorare il manovratore. Va sposata, e subito, la logica del “Digital Champion”. Il quale, beninteso, non può e non deve finire i suoi giorni facendo costantemente la spola fra quattro ministeri e una ennupla di tavoli e commissioni. Un Sottosegretario alla Presidenza, meglio ancora un Vice Presidente del Consiglio.
E un board dei CIO (ma CIO “per davvero”, non “Capo Centro Elaborazione Dati”) dei Ministeri e delle Regioni, cui il Digital Champion detta le tavole della legge e “batte i tempi”.
Tutto il resto, è buzzword.
(E, forse, anche noia)
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