Il digitale rappresenta la nuova forza di cambiamento nel mondo del business che sta travolgendo tutte le imprese, in tutti i settori, chi più chi meno intensamente. Il digitale ha spinto le aziende a interrogarsi sul proprio modello di business e sulla necessità di ripensare i propri prodotti e servizi o il modo di produrli e distribuirli al consumatore finale. In alcuni settori quali l’editoria e i media, questa trasformazione ha rappresentato un vero e proprio tsunami, con testate storiche che non hanno retto il cambiamento e hanno chiuso battenti. Queste aziende non hanno colto la reale portata del cambiamento, limitandosi solo a “tradurre” in digitale il contenuto cartaceo senza rivedere le forme di generazione di quel contenuto e di fruizione da parte del lettore. Chi ha affrontato con successo questa trasformazione totale del modello di business si è rio-organizzato in piattaforma digitale di contenuti, aprendosi a terzi esterni alla redazione e permettendo loro di generare contenuti in forma più dinamica, ad esempio attraverso i blog, e i lettori finali di partecipare attivamente nella discussione.
Le piattaforme digitali di beni e servizi quali Android, Airbnb, Amazon Marketplace, o SAP Netware sembrano in effetti la nuova forza trainante, il nuovo modello di business di successo. Tra le 50 aziende più innovative nel “Fast Company” ranking, le prime sono tutte piattaforme (aziende i cui prodotti sono principalmente piattaforme digitali); 60 delle 100 aziende più grandi del mondo per capitalizzazione ricava più del 50% del proprio fatturato da mercati mediati da piattaforme.
Perché le piattaforme hanno così tale rilevanza e impatto economico? A differenza di un semplice prodotto (uno smartphone, una app) o un canale distributivo digitale (e-commerce; in-app purchase), che si rivolge ad un mercato ben identificato e genera valore attraverso la vendita una tantum del prodotto, la piattaforma è un “prodotto infrastruttura” che da vita ad un vero e proprio mercato tra i consumatori finali (“consumatori”) e altri produttori di beni complementari a quello primario offerto dalla piattaforma (“venditori”). Apple iOS permette a produttori terzi lo sviluppo di applicazioni che integrano ed estendono le funzioni principali di iOS e del iPhone; i consumatori che comprano l’iPhone possono quindi estendere le funzioni del proprio telefono comprando queste applicazioni su AppStore. Allo stesso modo, Airbnb crea un mercato tra gli “hosts”, proprietari di case che mettono a disposizione sulla piattaforma, e “guests”, consumatori in cerca di alloggi di breve termine in una determinata località, alternativi all’hotel.
Le piattaforme quindi sono vere e proprie micro economie che possono abbracciare diversi settori attraverso l’offerta da parte di diversi produttori/innovatori di complementi. Le piattaforme rappresentano l’apice della rivoluzione digitale, capaci di liberare immenso valore economico attraverso la creazione di cosiddetti ecosistemi d’innovazione.
Visto il loro ruolo cruciale in un’economia evoluta, è opportuno chiedersi quale sia lo “stato di avanzamento” in Italia su questo fronte. Purtroppo, non solo si è fatto poco a riguardo; ma il tema non è nemmeno al centro del dibattito o parte del programma di attuazione dell’agenda. Il documento di Strategia per la Crescita Digitale parla di “piattaforme abilitanti”, ma si riferisce all’accezione generica del termine, non alle forme di “piattaforma mercato” qui discusse. La piattaforma Italia Login, ad esempio, è un sistema di accesso a dati e servizi da parte di imprese e cittadini pensato secondo gli schemi classici “top-down”, dove la PA, a monte, genera e fornisce i dati e servizi in formato digitale a imprese e cittadini, a valle. L’interazione quindi è verticale (dall’alto al basso) e uni-direzionale (dal pubblico al privato). Il modello di “piattaforme mercato” di cui si discute qui hanno invece uno schema di interazione triangolare, con la piattaforma che intermedia e funge da infrastruttura di interazione e scambio tra gruppi di utenti interdipendenti, produttori e fornitori di beni/servizi complementari da un lato, e consumatori finali dall’altro. L’interazione quindi è sia verticale (tra piattaforma e singoli utenti/produttori) che orizzontale (tra utenti e produttori).
Ci si può interrogare su perché anche il settore privato sia in ritardo su questi temi. Del resto, il problema non è solo Italiano; l’Europa in generale mostra una limitata iniziativa in tema di piattaforme digitali, con conseguenti perdite di competitività nei confronti di Stati Uniti ma anche di paesi emergenti quali India e Cina. Si pensi al caso eloquente di Nokia. Solo 10 anni fa nessuno avrebbe mai immaginato che il leader mondiale nel settore dei telefoni cellulari e smartphone potesse nel giro di pochi anni scomparire dalla mappa competitiva del settore, o che altri importanti produttori di hardware quali Motorola o HTC, LG fossero rilegati ad un ruolo marginale, con margini bassi e scarsa capacità di differenziazione, a tutto appannaggio della centralità della piattaforma. Nokia è l’esempio eloquente di un problema diffuso. Nell’ultimo rapporto sulla “platform economy” presentato dal Center for Global Enterprise a Boston lo scorso Luglio in occasione del Platform Strategy Symposium, che ogni anno riunisce studiosi di piattaforme, il confronto con Stati Unti e Asia era a dir poco impietoso: focalizzandosi su startup con più di un miliardo di valore, l’Europa annovera solo 13 startup piattaforme, per un valore complessivo (dell’aziende) pari a 26.6 miliardi di dollari; l’Asia ha il doppio in termini di numero di startup piattaforme, e 3 volte il valore economico delle stesse; negli Stati Uniti invece le startup piattaforme sono quasi 4 volte il numero di quelle europee, con un valore complessivo pari a quasi 9 volte quello europeo.
Sia chiaro; non sono tra coloro che additano il pubblico come la fonte dei mali e ritardi del Bel Paese; e che invocano nuove norme e incentivi fiscali come soluzioni. Ma visto il ruolo di stimolo e spinta al cambiamento che l’Agenda si pone, più che alimentare polemica sui “mali”, il mio è un invito a riflettere ed in fretta sul tema; a concentrare gli sforzi, le energie, e le intelligenze di tutti coloro che possono per competenze, conoscenze, ed esperienze in materia dare un impulso e un contributo all’iniziativa e sviluppo di piattaforme digitali che possano garantire che in un prossimo futuro l’Italia continui a giocare un ruolo primario di innovatore che Le compete e non perda il primato in quei settori dove oggi è protagonista. La Commissione Europea ha cominciato a muoversi in questa direzione per cercare di chiudere il gap, e ha lanciato da poco una consultazione generale volta a raccogliere evidenze, punti di vista e input circa il ruolo delle piattaforme nell’economia collaborativa, con l’obiettivo primario di comprendere le principali problematiche riguardanti le piattaforme, nel più ampio disegno del mercato unico digitale europeo. Altri Paesi stanno intraprendendo iniziative simili volte a comprendere e favorire la creazione di piattaforme digitali in vari settori. Londra ad esempio ha attivato un vero e proprio ciclo di audizioni parlamentari, dove ben dodici esperti, incluso alcuni colleghi co-autori di lavori scientifici sulle dinamiche competitive di ecosistemi e piattaforme, sono stati ascoltati sulle caratteristiche, punti di forza, potenzialità e fattori critici per lo sviluppo di piattaforme e relativi ecosistemi di innovazione.
In Italia purtroppo questi temi non ricevono la giusta attenzione e centralità. Eppure, visto il ruolo primario delle piattaforme nell’economia collaborativa, una strategia digitale di rispetto non può esimersi dal formulare un piano d’azioni volte alla trasformazione e veicolazione di beni e servizi tramite lo sviluppo di piattaforme mercato. È chiaro che la responsabilità di promuovere tali visioni e iniziative spetta ancor prima ai principali attori privati che fronteggiano in prima linea il rischio di calo di competitività. Nel caso della PA, un impulso importante potrebbe però venire dalla definizione di una strategia dedicata nell’ambito dell’Agenda Digitale. Ad esempio, Italia Login potrebbe essere ripensata come una piattaforma mercato che si apra ai privati permettendo loro di fare leva sulle informazioni pubbliche (tramite gli Open Data, cosi come a Londra) e offrire servizi complementari (o in concorrenza) a quelli offerti dalla PA, estendendone il valore agli utenti finali.
Continuare a interrogarsi sui chilometri di banda larga installata in Italia è sicuramente legittimo ed utile allo sviluppo del digitale; ma può dimostrarsi del tutto futile e fuorviante rispetto alle priorità concrete dell’agenda digitale di aziende private e pubbliche che l’economia collaborativa delle piattaforme impone: capire come fare leva sul digitale per offrire i propri prodotti e servizi tramite piattaforme che facilitino lo sviluppo di ecosistemi di innovazione. L’augurio è che il 2016 veda l’Italia e l’Agenda Digitale ripartire da qui per rilanciare con forza la sfida del digitale.