l’analisi

L’arte di “domare” i qubit: progressi e sfide nel computing quantistico



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Dalle intuizioni di Einstein agli esperimenti di Aspect, il computing quantistico evolve attraverso nuove tecniche di controllo errori. Il computer Willow dimostra progressi significativi nella gestione dell’instabilità quantistica

Pubblicato il 20 feb 2025

Micael Zeller

recuperohd.it, cultura-digitale.com



willow (1)

Adesso che il computer quantistico Willow di Google Quantum AI ha stabilito un nuovo nuovi record di potenza ed efficienza, è sorprendente constatare come nella computazione quantistica, così come nella meccanica quantistica, niente è come sembra.

Nel progresso della computazione quantistica il maggiore ostacolo è costituito dagli errori, dovuti all’intrinseca instabilità dei qubit. L’inconveniente, se non risolto, può essere aggirato con sistemi di controllo trasversale durante l’elaborazione, e si stanno individuando sempre più strade promettenti. Una particolarità che può essere preziosa per velocizzare il calcolo è la correlazione quantistica, fenomeno difficilmente intuibile, e tutt’ora inspiegato.

L’errore nei computer quantistici

I primi computer quantistici vennero realizzati verso la fine del secolo scorso. Si potrebbe immaginare che questi computer siano simili a quelli digitali, ma la realtà è molto più complessa, e non solo perché funzionano dentro un frigorifero che li mantiene a temperatura prossima allo zero assoluto (per esempio 15 millikelvin).

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Ogni volgarizzazione dei computer quantistici insegna che, mentre i computer digitali trattano bit (zero e uno), i bit quantici, o qubit, possono contenere zero e uno “sovrapposti”. Questa frase, che sembra voler dire tutto e niente, lascia al lettore non esperto l’impressione di saperne quanto prima.

In effetti i qubit sono enti che non possono essere letti o manipolati come facciamo con i bit, anzi: sono così timidi che il solo misurarli perturba il loro stato. Anche le operazioni con i qubit non sono le stesse operazioni logiche che siamo abituati a compiere con i computer digitali, cioè AND, OR, NAND etc., tranne semmai NOT (cioè l’operazione che cambia il valore di un bit), o meglio un NOT che, come lo XOR, è condizionato da un secondo bit: CNOT.

La potenza di calcolo di un computer quantistico aumenta esponenzialmente con il numero dei qubit operati. Purtroppo, essendo la meccanica quantistica il regno dell’indeterminatezza, con il numero di operazioni aumentano anche gli errori. L’instabilità dei qubit non permette di verificarne l’integrità direttamente come si farebbe con un algoritmo digitale di controllo. Proprio nell’emendamento degli errori Willow ha compiuto un notevole progresso, con un un controllo statistico attraverso qubit logici ausiliari. In tal modo con l’aumento dei qubit in gioco la potenza aumenta esponenzialmente, ma il tasso di errori anziché salire decresce, e ciò apre buone prospettive per macchine sempre più potenti.

Alla ricerca di soluzioni per la riduzione degli errori

La ricerca di soluzioni per la riduzione degli errori è continua, come confermano i progressi annunciati recentemente. Un argomento è lo sfruttamento di molecole polari ultrafredde.

Una delle altre vie per ridurre il numero di errori è stata indicata dai ricercatori dell’università UNSW di Sydney, che hanno dimostrato nel gennaio 2025 la possibilità di sfruttare, al posto dei tradizionali qubit, lo spin di nuclei di atomi di antimonio, i quali anziché due possono prendere otto direzioni. Insomma, il proverbiale “gatto di Schrödinger”, che nella teoria dei quanti non è né vivo né morto, guadagnerebbe sette vite.

Non solo, ma, come ha dimostrato in questi giorni un team della Chalmers Tekniska Högskola di Stoccolma, è possibile raffreddare un qubit affiancandogli un qutrit (ente a tre stati) e un secondo qubit, il cui compito è di assorbire al bisogno il calore in eccesso e risettare il primo qubit, con un ottimo tasso di successo.

La retrospettiva di Alain Aspect

All’inizio di quest’anno il francese Alain Aspect, vincitore tre anni fa del premio Nobel per la fisica grazie alle sue esperienze nel campo della meccanica quantistica, ha pubblicato un  libro rivolto a un pubblico di non specialisti: Si Einstein avait su (Se Einstein avesse saputo), Éditions Odile Jacob. Lo scienziato rievoca lo sviluppo della scienza quantistica, che vide tra i suoi pionieri Einstein e Bohr, e gli esperimenti da lui effettuati negli anni ottanta. Ispirati dagli studi del fisico britannico John Stewart Bell, essi segnano un passaggio storico per la teoria delle particelle quantiche correlate (entangled), una caratteristica di grande interesse per la computazione quantistica, per le future reti di comunicazione quantistica e per soluzioni di crittografia. Un computer quantistico può velocizzare il calcolo rilevando una sola delle due particelle, il che è stato sfruttato dal computer IBM Qiskit. 

Il senso comune suggerirebbe che dal momento in cui due particelle sono correlate rimangano uguali (o complementari, secondo i casi) per tutta la loro breve vita, ma la teoria spiega che esse dimostrano di essere legate solo nel momento in cui vengono misurate.

Ma come fanno le due particelle a “sapere” di essere correlate? Contengono in esse questa informazione? No, dice la teoria, poiché la caratteristica di ogni particella si definisce solo al momento della sua osservazione. Per stabilire questa tesi occorreva però un esperimento capace di esaminare le due particelle senza perturbarle.

Un piccolo esperimento alla portata di tutti

Per avere un’idea della complessità del procedimento di Bell chiunque può divertirsi a effettuare un semplice esperimento che richiede tre lenti polarizzanti, quelle degli occhiali da sole (o lenti addizionali) Polaroid. Chi ne ha usato talvolta un paio può aver notato che, incrociando una persona che indossa occhiali uguali, se ruota la testa di lato di novanta gradi vede le lenti dell’altra persona oscurarsi. Lo stesso avviene reciprocamente. Il giochetto mostra che queste lenti attenuano la luminosità trattenendo le onde luminose che si propagano su un piano orizzontale (e che di solito sono le più fastidiose, soprattutto sull’acqua e sulla neve). Le “polarizza” (come si dice con termine un po’ improprio). Ma aggiungendo una lente ruotata di novanta gradi la luce viene arrestata sia nella sua polarizzazione orizzontale sia in quella verticale – e in condizioni ideali si spegne.

Per ampliare l’esperienza muniamoci di tre lenti Polaroid. Teniamone due, parallele, davanti a uno sfondo illuminato e ruotiamole di 90° una rispetto all’altra, ottenendo così il massimo oscuramento. Prendiamo la terza lente e sovrapponiamola alle altre due: è possibile che anziché aumentare l’oscuramento lo diminuisca? Provando diverse angolazioni, sia davanti sia dietro alle altre lenti, non dovremmo notare risultati sorprendenti. Adesso interponiamo la terza lente tra le due, e ruotiamola. La sorpresa avviene a un angolo di circa 45°, quando la terza lente non solo non oscura, ma aumenta la luminosità nella zona di sovrapposizione.

Evidentemente la prima lente permette una diffusione di luce polarizzata entro un angolo limitato. La lente intermedia riceve un fascio di luce parzialmente ruotato e gli imprime un analogo effetto, dopo di che una parte di luce perviene alla lente di fondo non più a 90° bensì a 45°, perciò passa parzialmente.

In effetti l’ottica ci dice che la quantità di luce passante è proporzionale al quadrato del coseno dell’angolo tra i due piani di polarizzazione, il che per un angolo di 45° è 1/2. Quindi viene polarizzata dalla prima lente, poi dimezzata dalla seconda lente e ancora dimezzata dalla terza lente. L’effetto viene illustrato bene in questa dimostrazione didattica del MIT.

Optics: Quarter-wave plate | MIT Video Demonstrations in Lasers and Optics

La meccanica quantistica però spiega questo fenomeno in termini un po’ diversi: la lente intermedia produce fotoni che sono allo stesso tempo polarizzati orizzontalmente e verticalmente, cosicché al momento di misurarli avremo 50 contro 50 probabilità di riscontrarli orizzontali o verticali.

Il “grande” esperimento storico

In base a questo presupposto John Bell ideò un esperimento per controllare due particelle correlate, passanti però attraverso due polarizzatori separati, con diverse angolazioni. L’impegnativa sperimentazione venne compiutamente realizzata da Aspect, e su base statistica non rilevò nelle coppie di fotoni correlati alcuna “informazione nascosta”.

Da allora si pensa che ogni fotone correlato determini il destino del suo gemello tramite una misteriosa comunicazione istantanea a qualunque distanza.

Albert Einstein diffidò di questa spiegazione, ma non poté vedere l’esperimento in vita. E se lo avesse saputo? Oggi ad Aspect piace pensare che sarebbe stato lieto di conoscerne l’esito, anche se su questo argomento l’intuito del grande scienziato non si era dimostrato profetico.

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