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Lehnus (Infratel): “Reti ridondanti aprono un nuovo digital divide”

Gli operatori stanno coprendo tutti insieme le stesse città, dimenticando 7900 comuni. Ma siamo sicuri che sia questa la concorrenza che cerchiamo? Il mercato italiano rischia di essere sempre meno in grado di rispondere alle esigenze di banda. I contenuti tivù potrebbero invece dare una nuova popolarità a internet in Italia. La rubrica di Infratel Italia

Pubblicato il 24 Mar 2014

Rossella Lehnus

Director at Deloitte Financial Advisory

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Non v’è più dubbio che la competizione globale si giochi sulle reti di telecomunicazioni e raccontarlo in questo giornale apparirebbe didascalico. Altrettanto lapalissiano è che il nostro Paese non possieda le infrastrutture adeguate per reggere questa competizione. Non sto parlando al futuro, ma uso il presente indicativo e, forse dovrei usare il passato prossimo. Lo ha detto anche Caio nel 2009 e lo ha ribadito nel suo secondo rapporto del dicembre 2013. Lo dicono i risultati della consultazione pubblica del Ministero dello sviluppo economico gestiti da Infratel Italia e, ahimè, lo dice pure l’esperienza frustrante che spesso sono costretti a sopportare i consumatori.

La mano pubblica questa volta deve intervenire e anticipare un mercato che è tecnicamente destinato ad avere grosse difficoltà e strategicamente avviato alla creazione di nuovi divari. Questo è un passaggio importante che, se affrontato correttamente, potrà ritrovare un suo autosufficiente equilibrio nei prossimi 5/7 anni.

L’intervento pubblico vuol dire investimenti pubblici – europei e nazionali – vuol dire coordinamento e condivisione delle infrastrutture del sottosuolo (basterebbe anche solo che il decreto scavi venisse rispettato da tutti!), vuol dire regole premianti il rischio degli investimenti stessi, garantendo al contempo accesso a condizioni eque e non discriminatorie alle infrastrutture realizzate, nella ferma convinzione che ci debba essere competizione nei servizi offerti e non nella quantità di buche che si scavano nel territorio.

La marginalità per gli operatori di rete è calata drasticamente sia nel fisso, sia nel mobile, alimentata da una politica di pricing talmente aggressiva da diventare paradossalmente nociva per i consumatori, più focalizzati sulle tariffe che sulla qualità offerta. Una qualità destinata a peggiorare nel tempo (come dimostrano i dati AGCOM), soprattuto in mancanza di investimenti in una rete che, a differenza delle altre, è intelligente: pensiamo a come nuovi sw hanno migliorato le performance del rame negli anni.

La storia della liberalizzazione degli anni 90 ci ha insegnato che una competizione basata sulle infrastrutture non si traduce in più infrastrutture, bensì in infrastrutture ridondanti. Seguendo le logiche di mercato i vari operatori si concentrano tutti nelle stesse grandi città, disseminando antiestetici armadi nelle stesse vie più frequentate e dimenticando le aree più marginali. Il risultato sono città come Milano o Roma servite da più molti operatori in banda ultralarga e altri 7900 Comuni esclusi dalla digitalizzazione.

Ma siamo sicuri che sia questa la concorrenza che cerchiamo? Siamo sicuri di dover difendere sempre la piccola impresa italiana che resiste alle acquisizioni? Eppure, molti economisti da anni hanno smontato il mito italiano del piccolo è bello, soprattutto in un business come quello delle infrastrutture che vive di ingenti investimenti e grandi economia di scala, con margini risicati.

Lo snobismo che ci condanna al digital divide culturale

Dobbiamo rassegnarci al fatto che la killer application delle reti di nuova generazione è la televisione, o meglio, il video: la forma di comunicazione mediata più simile a quella naturale, che convertirà anche i più riluttanti, chiamateli net evaders, keeg o luddisti tecnologici. Il settore televisivo e, in particolare, l’assenza della televisione via cavo, ha condizionato profondamente quello delle TLC, ma ora sarà proprio l’evoluzione tecnologica della televisione a costringerci a ripensare al modello. È ora che questo gap sia colmato, è ora che le telco si gestiscano la delivery dei broadcaster, seguendo il modello statunitense, aprendo così le porte a tutti i servizi digitali che potrebbero finalmente viaggiare su una rete performante e capillare. Quei servizi che fino a oggi sono stati esperiti solo parzialmente per mancanza di banda sufficiente: dalla gestione in cloud dei dati aziendali e personali, alle videoconferenze e dalla telemedicina all’ecommerce, ecc, nonché per garantire i servizi di oggi a un’utenza sempre più ampia che crescendo satura l’attuale capacità di banda. Ma è il video l’unica che può attrarre quel mercato di massa che i servizi digitali non sono riusciti a sedurre, spingendo l’attuale modello di business italiano verso quello statunitense piuttosto che verso quello europeo.

La tendenza è questa, lo dimostrano le scelte industriali sia dei produttori hardware che hanno modificato i televisori in device connessi alla rete a banda larga, sia dei fornitori di contenuti e servizi che si orientano verso un’offerta di soluzioni che si alimentano di banda larga e si visualizzano sulla televisione dai videogiochi, film, musica, ecc, sia dei consumatori che acquistano in modo sempre più massivo tv connesse. L’over the top television rappresenta, infatti, la soluzione integrata più flessibile delle offerte televisive pure via digitale terrestre, satellitare e via cavo con tutte le offerte video provenienti dalla rete.

L’unico freno allo sviluppo di questo settore è rappresentato proprio dalla capacità trasmissiva, che non riesce a tenere il ritmo dell’evoluzione tecnologica e delle richieste dei consumatori. Come negli anni ha dimostrato il passaggio prima al colore e poi alla qualità digitale: è impossibile tornare indietro. Il futuro è la banda ultralarga anche per la televisione: non può essere il digitale terrestre, già oggi ampiamente inadeguato. La tdt non sarebbe in grado di competere con Sky, se non grazie a un’ampia gamma completamente gratuita che non potrà mantenersi tale a lungo, poiché i margini di questo business si stanno riducendo, soprattutto a causa del calo delle revenue pubblicitarie e al diluirsi delle audience. Nei prossimi cinque anni, dunque il sistema collasserà perché le curve di redditività del business televisivo e quella dello sviluppo tecnologico palesano una crisi definitiva per il digitale terrestre.

La capacità trasmissiva richiesta è, e sarà ben superiore sia a quella del digitale terrestre sia a quella satellitare, lo dimostra il fatto che in Italia ancora non abbiamo offerte consumer per i televisori ultraHD (4k) già ampiamente disponibili in tutti i media store che saranno una realtà nella finale dei Mondiali di calcio di Brasile 2014. In arrivo interessanti partnership, fra cui anche un accordo tra Sony e Netflix: purtroppo però nessuna sta prendendo in considerazione il mercato italiano, poiché inadeguato dal punto di vista infrastrutturale.

Il mercato italiano, dunque, non è già in grado di rispondere alle richieste di banda e certamente non possiamo permetterci di frammentare gli investimenti in reti ridondanti. Dobbiamo consolidarle in una rete unica, perché non vi è una scala economica tale da permettere una concorrenza infrastrutturale, se non in poche aree. Una concorrenza asfittica e tutta tesa al breve periodo, dunque, che porterebbe a nuovi squilibri, condannando a ritardi difficilmente recuperabili le aree meno densamente popolate. Ciò rallenta drammaticamente l’intero Paese nella sua corsa per lo sviluppo e la competitività globale. Non ho dubbi che l a qualità dei servizi e della banda larga siano la primaria aspettativa di tutti i cittadini e le aziende italiane, per questo la politica e il nuovo Governo dovranno farsene carico. Una scelta decisiva per il futuro dell’Italia.

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