radiazioni elettromagnetiche

Limiti elettromagnetici, perché bisogna aumentarli subito

Il nostro Paese ha i limiti di esposizione ai campi elettromagnetici più bassi in Europa. Come siamo arrivati a imporre un valore così ridotto e perché non è necessariamente un vantaggio in termini di salute

Pubblicato il 27 Lug 2021

Vincenzo Lobianco

Già consigliere per l’innovazione tecnologica dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni

5g-consumi

Siamo di nuovo all’anno zero per l’annosa questione dei limiti massimi di esposizione ai campi elettromagnetici ammessi in Italia. Con la bocciatura dell’emendamento proposto da Italia Viva che proponeva un innalzamento di questi limiti cadono le speranze di chi si aspettava un adeguamento ai livelli almeno europei che potessero facilitare la copertura del 5G sul territorio nazionale.

Il gioco dell’oca, iniziato più di vent’anni fa, ci riporta alla casella iniziale, quella dei primi anni 2000 quando, sull’onda popolare del rifiuto delle antenne, la legge quadro 36/2001 e il DPCM 8 luglio 2003 confermarono i livelli fissati nel 1998 da un Decreto del Ministero dell’Ambiente al valore internazionalmente tra i più restrittivi e dieci volte inferiore a quello allora consigliato dall’ICNIRP, l’Istituto indipendente e no-profit che si occupa di protezione dalle radiazioni non-ionizzanti, consulente della Commissione Europea su queste tematiche. La decisione fu presa non sulla base di evidenze scientifiche ma sulla drastica applicazione di un principio di precauzione presente nella disciplina comunitaria in tema di ambiente.

Limiti elettromagnetici, basta populismi: ora è in gioco la ripresa dell’Italia

L’Italia ha i valori più bassi d’Europa

E se, per l’appunto, si guarda al confronto europeo, l’Italia si pone in ultima posizione rispetto ai valori adottati dalla maggior parte degli Stati membri: 6 V/m valido per tutte le frequenze utilizzate dai dispositivi mobili rispetto ai valori ICNIRP di 41 V/m per la banda a 900 MHz, 58 V/m per la banda a 1800 MHz – entrambe utilizzate dal 4G – e 61 V/m per le bande 2100 e 2600 MHz, in uso per il 3G e il 4G. Solo la Polonia ha dei valori limiti comparabili con quelli nazionali.

Ma come si è arrivati a imporre un valore così ridotto? Chi scrive ricorda bene le sollevazioni popolari di fine del secolo scorso contro l’istallazione di numerose nuove antenne, resasi necessaria per far fronte allo sviluppo impetuoso della telefonia cellulare in Italia che registrò, primi in Europa, una media di quasi 2 carte SIM a testa. Allo stesso tempo si assisteva alle vibrate proteste e segnalazioni alle Autorità competenti quando un comune, un quartiere, una località turistica non risultavano adeguatamente coperte dal segnale. Evidentemente le istanze contro le antenne ebbero maggior seguito da parte del decisore politico rispetto alle prassi allora in uso a livello internazionale. Ricorda, in qualche misura, quello che sta succedendo ora con il COVID-19, la suggestione popolare e una politica populista hanno avuto ragione rispetto alla scienza e alla tecnica. D’altronde, anche di questi tempi sono state diffuse molte bufale sul 5G e i vaccini.

Il dedalo di norme sull’installazione delle antenne

Oltre ai valori massimi di esposizione eccessivamente ridotti, l’installazione delle antenne in Italia si è dovuta da sempre confrontare con la sovrapposizione di norme statali, regionali e comunali per le autorizzazioni territoriali e quelle sanitarie – adottate in maniera non sempre uniforme dagli amministratori locali – che hanno contribuito a rendere difficoltosa la realizzazione delle reti mobili. Nonostante queste difficoltà, tuttavia, gli operatori mobili sono riusciti a offrire livelli ottimali di copertura con le varie tecnologie 2G, 3G e 4G che si sono succedute durante gli ultimi 25 anni. Ora la storia si ripete con il 5G ma, a detta di uno dei massimi esperti italiani, il Prof. Maurizio Dècina “con il limite a 6 V/m, un decimo di quello standard cautelativo posto della ICNIRP fin dal 1998 e adottato dalla stragrande maggioranza dei paesi del mondo, lo sviluppo dei sistemi cellulari 5G in Italia è fortemente penalizzato se non fortemente disincentivato”

Le preoccupazioni per la salute potevano forse avere un fondamento 20 anni fa, quando a poca distanza temporale dalla diffusione di massa della telefonia cellulare potevano sussistere dei dubbi, per il ridotto numero di studi, sulla effettiva pericolosità delle radiazioni emesse dalle stazioni radio base e dai telefoni.

Perché ridurre le stazioni radio-base è controproducente

Oggi, dopo oltre trent’anni diffusione di massa della telefonia mobile (si stimano oltre 8 miliardi di telefoni cellulari attivi su un pianeta di 7,5 miliardi di persone) non è stato ancora provato da studi epidemiologici un legame incontestabile di causa-effetto tra l’uso del telefonino e l’insorgere di malattie tumorali. Inoltre, non sono tutti a conoscenza del fatto che il telefono mobile, il dispositivo che molto spesso teniamo appoggiato all’orecchio e alla testa possa emettere, in determinate condizioni, radiazioni elettromagnetiche ben più forti di quelle ricevibili da una stazione radio-base. Questo avviene quando il telefono è distante dalla stazione e viene istruito da quest’ultima ad aumentare la potenza per mantenere la comunicazione. Questa situazione si verifica spesso quando le stazioni radio-base non sono adeguatamente pianificate sul territorio a causa dei vincoli autorizzatori di cui si sta parlando e il terminale mobile può ritrovarsi molto distante dall’antenna servente. E quindi, ridurre il numero di stazioni può avere effetti controproducenti sull’esposizione ai campi elettromagnetici. In definitiva, si può affermare che la dose di esposizione alle radiofrequenze ricevuta giornalmente è in buona parte dovuta al telefono cellulare e che questa dose aumenta se la copertura delle stazioni radio-base non è ottimale.

Si diceva prima del ritorno alla casella iniziale di un virtuale gioco dell’oca. Infatti, numerosi sono stati, nel corso degli ultimi venti anni, i tentativi di modificare i valori massimi dei limiti di esposizione per adeguarli a dei valori più ragionevoli, ancorché sicuri e che avrebbero facilitato l’istallazione delle reti.

Nel 2012 si provò ad aggiornare questi limiti, con riferimento in particolare ai livelli massimi di esposizione all’interno degli edifici. Il D.L. 18 ottobre 2012 n. 179 ha richiesto, tra l’altro, all’ISPRA e alle ARPA regionali di definire delle linee guida che tenessero in conto l’assorbimento delle onde elettromagnetiche da parte delle strutture degli edifici. Le Linee Guida sono state approvate solo nel 2016 e, nonostante quanto indicato dal Decreto, hanno introdotto un fattore di correzione indoor pari a 0 (zero) non modificando di fatto il livello massimo di esposizione all’interno degli edifici.

Nella seconda metà della scorsa decade, in concomitanza con definizione della tecnologia 5G e la pianificazione delle relative frequenze, sono state numerose le iniziative, anche parlamentari, per arrivare a un incremento dei valori massimi di esposizione. Il clamoroso risultato – in termini di incasso – dell’asta del 5G nel 2018 (circa 6,5 miliardi di euro in totale) aveva condotto più di qualcuno a ipotizzare che visto l’ammontare pagato dagli operatori mobili e la necessità di non deprimere i loro investimenti per la realizzazione delle reti, si sarebbe provveduto ad aggiornare i valori massimi. Anche questi tentativi non sono andati in porto.

Si torna alla casella iniziale

Infine, l’emendamento di Italia Viva bocciato alla Camera ha concluso la partita, riportando tutti i giocatori alla casella iniziale.

Quali considerazioni si possono trarre da quanto detto sinora?

In primo luogo, la progressiva digitalizzazione delle tecnologie cellulari ha condotto mediamente ad una riduzione delle potenze emesse dalle singole antenne. Peraltro, con il 2G, 3G e 4G le antenne emettono potenza radioelettrica in maniera circolare anche verso le direzioni non necessarie dove non sono presenti terminali mobili. Con il 5G e le antenne intelligenti (smart antennas), si arriverà a un’ulteriore riduzione della potenza media emessa. Infatti, la nuova tecnologia comporta un fattore di efficientamento radioelettrico aggiuntivo in quanto queste antenne sono in grado di indirizzare il fascio di irradiazione verso l’utente, riducendo quindi la potenza complessiva emessa dal singolo pannello e quindi quella emessa inutilmente nelle direzioni non necessarie. Secondo alcuni esperti, le smart antennas oltre a ridurre l’emissione elettromagnetica globale, garantendo una migliore copertura sono in grado di diminuire la potenza emessa da un terminale mobile che, come già visto, ci assicura buona parte delle radiazioni assorbite. Quindi non si deve ritenere, a priori, che l’istallazione delle reti 5G possa provocare un incremento significativo delle emissioni elettromagnetiche.

Al contrario, mantenere dei limiti così restrittivi per un singolo sito non può che avere effetti controproducenti. Infatti, obbligherà indurrà gli operatori mobili a istallare molti più siti, essendo impossibile riutilizzare i siti dove presenti antenne 2G/3G/4G e che già garantiscono coperture ottimali che comportano la riduzione della potenza emessa del terminale mobile. L’aumentare dei siti, oltre a influire sui costi e tempi di realizzazione del 5G, avrà un impatto negativo sul paesaggio e sull’ambiente.

Infine, un innalzamento dei livelli massimi di esposizione non necessariamente causerà un incremento del livello di inquinamento elettromagnetico. A riprova di questa affermazione si riporta uno studio recentemente prodotto dall’Agenzia francese per la gestione delle frequenze radioelettriche (ANFR) nel 2020. Lo studio mostra come, nonostante in Francia i livelli massimi di esposizione siano significativamente superiori a quelli italiani e pari a valori compresi tra 28 e 61 V/m nelle bande di frequenze per le comunicazioni mobili (da 1 a 6 GHz) i valori misurati sul territorio risultino nella maggior parte dei casi inferiori addirittura alle soglie italiane. Sono state infatti effettuate misurazioni dei livelli di campo elettromagnetico in 2735 località, distribuite uniformemente sul territorio francese in proporzione alla densità abitativa, sia all’interno degli edifici – la maggior parte- sia all’esterno ed è risultato che nel 76% dei casi i valori di campo elettromagnetico sono inferiori a 1V/m mentre nel 99% delle misurazioni i valori sono risultati inferiori ai 7 V/m.

In conclusione, mantenere livelli nazionali basati su una applicazione apodittica del principio di precauzione non può che avere impatti negativi sugli stessi interessi che questa legislazione, ormai obsoleta, aveva intenzione di perseguire.

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