Molte cose si potrebbero scrivere di questo anno 2017 che è l’ultimo di una legislatura e l’ultimo di un Governo che, nel bene o nel male, ha rimesso l’attenzione sulla trasformazione digitale.
Potremmo parlare in positivo del FOIA, della strategia della Banda Ultra Larga, della semplificazione amministrativa partita intorno alla ricerca di ontologie comuni con l’obiettivo di unificare moduli ed adempimenti in tutta Italia, delle tecnologie sviluppate dal team digitale de dall’AgID. Potremmo parlare di luci ed ombre in provvedimenti come il CAD che tutti avremmo voluto figlio di una innovazione disruptive e ci troviamo invece come piccola innovazione incrementale, difficilmente in grado di scardinare la “burocrazia difensiva”, o come il Piano triennale per cui il grip sulle amministrazioni è ancora scarso.
Potremmo parlare in negativo dei numeri ancora insoddisfacenti dello SPID, dove non sono partiti ancora gli ingaggi veri dei servizi privati o ancora dell’ANPR che, seppure è ripartita, è ancora spaventosamente indietro rispetto agli impegni presi. Ma c’è un fatto (e contra factum non datur argumentum) che sintetizza meglio di qualsiasi altro questa fine anno e le sue contraddizioni. L’altro ieri mattina, dopo un estenuante sessione di bilancio, è stata prima depotenziato e umiliato, poi ritirato dallo stesso proponente deluso, l’emendamento Coppola che stanziava una somma tutto sommato molto ragionevole per poter assumere nella PA, ove non si trovino le competenze interne, quei famosi “responsabili della transizione digitale” che il CAD descrive minuziosamente nelle loro caratteristiche, dimenticando che di figure del genere la PA ne ha ben poche.
Questa bocciatura, di cui molto si è parlato anche su “Agendadigitale.eu”, non è solo grave in sé, ma dimostra tre gravi “idola” che rischiano di distruggere dalle fondamenta qualsiasi processo di trasformazione digitale della PA:
- Non si è capito ancora che non esiste innovazione a costo zero e che se non si investono, oculatamente e con un serio controllo, risorse umane e finanziarie non si svolta. L’innovazione costa. Se si fa seriamente, costa non poco. E’ perciò necessario saper scegliere perché tutto non si può fare. Neanche se ci piacerebbe, neanche se forse sarebbe giusto. E la politica deve essere il momento della scelta e anche il momento della rinuncia a quello che, per ora, non si può fare. Ogni volta che però leggo “Dall’attuazione delle disposizioni di cui al presente decreto non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica” mi deprimo e mi arrabbio, Mi deprimo perché so che l’innovazione sarà finta, fatta di carta che risponde a carta; mi arrabbio perché mi sento preso per scemo. Proprio perché se innoviamo ci saranno invece necessariamente nuovi e maggiori oneri per la finanza pubblica, ma se non innoviamo sarà peggio, dobbiamo definire delle priorità e polarizzare i nostri sforzi. Se questo è vero lo è a maggior ragione per la digital transformation che incide profondamente nei processi, nella cultura, nei comportamenti di tutta la macchina burocratica. Una riforma che voglia fare tutto con niente ottiene quel che investe: niente. O meglio nient’altro che carta.
- Non è entrato veramente nella testa della nostra politica (né dei nostri tecnici del MEF) che il digitale è l’unica via dello sviluppo, anzi che non esiste altro sviluppo che quello digitale, non esiste nessuna buona amministrazione se non digitale, nessuna buona scuola, nessuna buona sanità, nessuna buona politica culturale che non nuoti in queste acque.
- Altrettanto è rimasto fuori della porta della nostra politica la convinzione che senza competenze e persone competenti e motivate non si va da nessuna parte. Al di là della retorica investire nelle persone dentro e fuori l’amministrazione vuol dire avere fiducia che tutte, siano esse cittadini o impiegati pubblici, sono portatori non solo di bisogni (o di costi), ma anche e soprattutto di idee e di soluzioni. Dentro la PA questo vuol dire avere come obiettivo lo sviluppo di ciascuno nella sua specifica diversità. Sviluppare le persone, far sì che pensino e partecipino attivamente al miglioramento di quello che fanno, vuol dire poter contare su leader lungimiranti, che sanno che la loro forza è la forza della loro squadra, che si sforzano sempre di far sì che cresca nei propri collaboratori l’orgoglio e insieme la capacità di autovalutarsi. In questo senso In questo senso è essenziale riaprire le porte della PA a nuovi profili, a nuove professionalità a nuove figure (che tra l’altro abbassino l’età media della PA italiana che è la più alta del mondo) è fondamentale l’ attenzione a sceglierle bene, a dar loro le giuste prospettive di crescita, a formarle, a motivarle a fare il mestiere più bello del mondo: essere utili alla propria comunità, a non vederle come una controparte da cui ci divide un tornello, ma indispensabili compagni di una strada che si può fare solo insieme.
E’ qui, nella nostra capacità di superare questi tre ostacoli prima di tutto politici, che si gioca il nostro futuro. Il resto è contorno.