In questi giorni ho letto molte e diverse interpretazioni riguardo alla modifica della lettera r) dell’Articolo 117 della Costituzione approvata alla unanimità dei votanti [334 favorevoli e 4 astenuti] dalla Camera dei Deputati martedì scorso.
Onestamente ritengo che affermare che è stata scritta una pagina della storia italica è una forzatura rispetto alla reale portata del provvedimento.
La proposta di modifica ha un valore soprattutto simbolico ed è sicuramente a utile a mantenere ancora più forte l’attenzione sulla necessità di rendere disponibile ai cittadini, agli imprenditori, ai professionisti e agli investitori un ecosistema digitale degno di tal nome e capace di garantire la crescita e la competitività del nostro Paese.
Al fine di fare un po’ di chiarezza provo a dare, con la debita prudenza e la dovuta modestia, visto che non sono un costituzionalista, la mia opinione non tanto su quello che è accaduto – o su quello che sta accadendo, visto che il percorso di approvazione di modifica di un articolo della Costituzione è lungo e tortuoso e in questo caso richiede ancora diversi passaggi, almeno tre, tra le Aule di Camera e Senato e forse anche un referendum popolare – ma piuttosto su quello che potrebbe accadere a modifica definitivamente approvata, ottimisticamente parlando non prima del sedici.
Nella sua versione originaria l’Articolo 117 recita:
“La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.
Lo Stato ha legislazione esclusiva nelle seguenti materie:
(…)
r) pesi, misure e determinazione del tempo; coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale; opere dell’ingegno;”
Se ne leggiamo con attenzione la formulazione questa avrebbe potuto essere ad esempio ostativa, per vizio di costituzionalità, nella promulgazione delle leggi adottare da parte di alcune regioni in materia di open data.
Del resto io stesso, a cui molti generosamente attribuiscono la paternità di alcune importanti iniziative in materia di open data e di open government e che mi sono battuto per rimuovere gli ostacoli posti dal così detto decreto Pisanu al libero accesso alle reti wireless, ho più volte affermato, anche pubblicamente, che ritenevo una sciocchezza il fatto che le regioni si trovassero nella condizione di dover legiferare su questi temi – anche quando questo era richiesto da vigenti direttive comunitarie e formali solleciti ad ottemperare – in conseguenza della totale inerzia da parte dello Stato.
Anzi, ho più volte affermato che la produzione di leggi a livello regionale in materia di sistemi informativi pubblici, di open data, di open source (o software libero), di libero accesso alle reti aperte e wireless costituiva una pessima ma necessaria pratica, l’ennesima anomalia di un sistema bacato e sbilenco dove, in assenza di un intervento legislativo e regolatorio da parte dello Stato, le diverse leggi dei territori, o la loro totale assenza, avrebbero prodotto una surreale babele – un paese normato a pelle di leopardo – capace solo di disorientare i cittadini e soprattutto gli imprenditori e gli investitori.
Immaginate, per esempio, un imprenditore straniero che abbia intenzione di investire in Italia per offrire sul mercato un nuovo servizio di infomobilità basato anche sull’utilizzo di dati trattati dalla pubblica amministrazione.
Come può ipotizzare un business model, basato su di un ROI credibile, quando le modalità ed i tempi di rilascio dei dati, i loro formati e le regole di ingaggio potrebbero essere diverse ben che vada da regione a regione?
E in Italia, giusto per ricordarcelo, ne abbiamo diciannove più due province autonome.
Ben che vada, lo sottolineo, perché poi spesso nella realtà le regole sono diverse da amministrazione ad amministrazione.
Ma veniamo ora alla nuova formulazione del lettera erre, quello che può essere definito il comma Quintarelli, dell’Articolo 117.
“La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.
Lo Stato ha legislazione esclusiva nelle seguenti materie:
(…)
r) pesi, misure e determinazione del tempo; coordinamento informativo statistico e informatico dei dati, dei processi e delle relative infrastrutture e piattaforme informatiche dell’amministrazione statale, regionale e locale; opere dell’ingegno;”
Una aggiunta sicuramente interessante che può prestarsi a letture diverse, alcune, in circolazione in questi giorni, in certi casi onestamente esagerate in altri decisamente strumentali.
Ma facciamo un passettino indietro nella storia.
L’emendamento originario, quello presentato nei giorni precedenti e contro il quale si erano schierati praticamente tutti, in realtà mirava ad aumentare la sfera della potestà legislativa dello Stato cancellando tre consonati, quattro vocali e uno spazio bianco, ovvero “dei dati” estendendola la sfera del “coordinamento informativo statistico e informatico” non solo appunto ai dati ma al suo intero complesso.
Principio che suona molto costituzionale e conseguentemente molto generale ed astratto.
La nuova formulazione invece introduce il concetto di processo ancorandolo alle relative infrastrutture e piattaforme informatiche.
Come dire, ad esempio, che con una norma dello Stato si stabilisce che il Fascicolo Sanitario Elettronico viene realizzato centralmente e le regioni ed il sistema sanitario ed ospedaliero lo adottano e si occupano del dispiegamento territoriale.
Mi rimane però il dubbio che si potesse fare anche prima, avendone la volontà politica.
Certo, una norma di tale portata sarebbe sicuramente oggetto di valutazione da almeno un paio di Commissioni della Conferenza delle Regioni (quella competente in tema di salute e la costituenda sul digitale) e materia di discussione nella Conferenza Unificata, però è chiaro che una modifica degli equilibri è palese.
L’intento del legislatore costituzionale è chiaro e per certi versi lodevole: considerare le infrastrutture e le piattaforme digitali strategiche per il Paese collocandole sullo stesso rango normativo, ad esempio, delle norme generali sull’istruzione, lettera n), o della tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali, lettera s).
Ma i tempi di stesura, di discussione e di promulgazione di una legge dello Stato, anche in assenza della storica ed atavica inerzia su di un tema strategico ma politicamente nei fatti poco caldo – non mi sembra che il Parlamento sia popolato da parlamentari modello Paolo Coppola, Antonio Palmieri e Stefano Quintarelli [per citarne alcuni tra i pochi e ovviamente in rigoroso ordine alfabetico] –, saranno compatibili con il time to market della innovazione e del digitale?
Lo Stato, seppure in un perimetro di potestà legislativa minore, avrebbe potuto fare molto in questi anni ma purtroppo ha prodotto, sul piano normativo, poco e male e la situazione è stata per certi versi peggiore quando si analizza le decretazione.
Mi auguro, sinceramente, che l’obiettivo di alzare l’asticella porti con se la consapevolezza che il digitale richiede una competenza ed una autorevolezze che purtroppo è ancora oggettivamente merce rara nel nostro Parlamento e più in generale nella classe politica e dirigente del nostro Paese.