Negli ultimi giorni si è molto discusso della legge sulla Net Neutrality che andrà in aula al Senato la settimana prossima. In particolare il confronto si è soffermato sulle disposizioni contenute nell’articolo 4, perché per il resto la legge riprende norme che intanto dalla sua presentazione sono diventate oggetto di un regolamento europeo. L’articolo 4 dispone che gli utenti hanno il diritto di reperire in linea ed utilizzare, a condizioni eque e non discriminatorie, software, contenuti e servizi di loro scelta. Inoltre, è previsto il diritto a disinstallare dal proprio device il software per il quale l’utente non ha interesse, salvo nei casi in cui il software sia obbligatorio per legge o essenziale per l’operatività o la sicurezza del dispositivo.
Voglio spiegare perché non sono d’accordo.
Innanzitutto, si tratta di una norma non presente ad oggi in nessun regolamento europeo o bozza di regolamento europeo, incluso quello sulla neutralità della rete. E’ quindi poco utile, anzi dannoso, in un contesto di necessaria armonizzazione europea in campo digitale, intraprendere oggi un isolato percorso di questo tipo a livello nazionale, sottoponendosi al rischio di azioni di disapplicazione della norma in quanto incompatibile con le normative europee sulla tutela della concorrenza, la libertà d’impresa e la libera circolazione di beni e servizi, ove non addirittura ad una procedura d’infrazione.
Un isolato approccio nazionale rischia di creare seri problemi di competitività e di opportunità rispetto ad altri Paesi europei, in quanto la realtà del settore digitale è così ampia, variegata e globale che il rischio è che qualche operatore decida di prendere le distanze dal nostro mercato, generando gravi danni al consumatore italiano. E’ ancora presente alla nostra memoria il caso Google news in Spagna che, in base a iniziative esclusivamente nazionali in quel paese, si è risolto, alla fine, con una riduzione della libertà di scelta per il consumatore spagnolo.
L’attuale testo si scontra poi con le esigenze sottese alla creazione di piattaforme più o meno “chiuse”. Sebbene si parli genericamente di “diritti” in capo all’utente, di fatto, se la legge deve essere efficace, ad ogni diritto deve corrispondere un dovere, cioè un obbligo in capo all’impresa cui si rivolge l’utente. E qui tuttavia permane un’irrisolta ambiguità di fondo circa i doveri dei produttori di software da un lato e dei titolari di piattaforme dall’altro: una mancata fornitura del titolare di un software può tradursi, a cascata, in una responsabilità ‘a fornire’ del titolare della piattaforma. Ma quest’ultima responsabilità sarebbe, nell’attuale testo, del tutto indipendente dal potere di mercato e quindi per la prima volta si introdurrebbe nel nostro ordinamento un obbligo di fornitura indipendentemente dall’esistenza di una posizione dominante, del soggetto obbligato a fornire, sul mercato di riferimento. Il paradosso è che la legge tratterebbe tutti gli operatori alla stregua di soggetti dominanti, e tutti i soggetti dominanti come se mettessero in atto pratiche abusive e dovessero quindi essere obbligati ex ante a seguire un certo codice di comportamento. In altri termini, si limiterebbe una libertà commerciale d’impresa anche in contesti nei quali l’esercizio di quella libertà non si traduce in un comportamento lesivo della concorrenza sul mercato ma, anzi, incontra il favore degli utenti.
Peraltro, nel caso delle piattaforme, l’esigenza di scaricare l’app dal mercato “ufficiale” nasce non tanto dalla volontà di tenere una sorta di controllo sul mercato che orbita attorno alla propria piattaforma (come dimostrano i dati che riporto in seguito), bensì dalla necessità di assicurare un controllo di compatibilità tra il software elaborato da terze parti e l’ambiente di sistema su cui è installato. Questa esigenza, tra l’altro, acquisisce un piano rilevante dal punto di vista della sicurezza del sistema operativo (che nel caso dei cellulari, di fatto, raccoglie e gestisce una notevole quantità di informazioni personali come foto, e-mail, documenti, etc.) ma persino del dispositivo stesso (utilizzo dell’hardware, controllo delle prestazioni, efficienza energetica).
Inoltre, l’esercizio di un controllo sulla piattaforma si rende necessario al fine di poter rimuovere (ex post) qualsiasi tipologia di software malevolo che possa comportare rischi per l’utente (ad es., app precedentemente autorizzate che, successivamente, si rivelano essere dannose o aventi finalità illecite).
Peraltro, fatico a vedere un vero vantaggio per l’utente: lo store di Apple al momento ha 2.200.000 apps comprese quelle di tutti i competitor di Apple, come ad es. Google Maps o Spotify. Mentre Google Play ha 2.800.000 apps. Le poche apps non presenti sui mercati ufficiali generalmente presentano problemi di compatibilità con il software o di legalità (es. musica o film in streaming).
Il soggetto più colpito dal DDL sarebbe una specifica impresa come Apple, quindi una norma contra impresam, in particolare in relazione agli iPhone, sui quali non è possibile (salvo jailbreaking) installare software non presente nello store, ciò a riprova che non c’è stata alcuna fake news da parte dei quotidiani che hanno sollevato il tema. Non si vedono invece al momento questioni direttamente problematiche per Google e per Microsoft, che sulle ultime versioni di Android e Windows mobile consentono l’installazione di applicazioni di terzi. Diversamente, l’obbligo di consentire la rimozione di contenuti pre-installati interesserebbe anche questi ultimi.
Di fatto, nell’attuale formulazione, la norma interverrebbe in materia di prevenzione di formazione di “sistemi chiusi”, ma quest’ultima, in assenza di potere di mercato, è una libera scelta del modello di business. I consumatori possono scegliere se rivolgersi a un sistema chiuso o aperto, godendo dei vantaggi in cambio degli eventuali limiti. E’ il mercato che seleziona e, in presenza di posizioni dominanti, è l’antitrust ad accertare eventuali abusi.
Al contrario, una regolazione del comportamento economico degli operatori di mercato che prescinda dall’esistenza di potere di mercato degli stessi per essere invece applicata indistintamente a tutti gli attori presenti sul mercato, appare una ingiustificata imposizione di un business model. Si tratta di un esito indesiderato che non posso condividere: fintanto che il consumatore è libero di scegliere tra diverse alternative sul mercato, la libertà di impresa va salvaguardata, a meno che, ripeto, non si sia in presenza di abusi di posizione dominante. In quest’ultimo caso, esiste una legislazione antitrust insieme ad una consolidata prassi, che offre tutte le garanzie a imprese e consumatori, senza la necessità di nuove disposizioni, soprattutto alla luce del fatto che, mentre gli eventuali interventi del Garante si riferiscono a uno specifico comportamento, la legge avrebbe efficacia erga omnes. Va infine, en passant, ricordato che la libertà di impresa è altrettanto importante quando la libertà del consumatore, perché è un presidio della concorrenza che stimola l’innovazione.
Anche per quanto riguarda gli aspetti sanzionatori, rimane il rischio di abusi e distorsioni nell’applicazione della norma proposta. Inoltre, l’onere probatorio è diabolico: a chi spetta? E poi quale è il comportamento scorretto: quello del titolare del software, quello del titolare della piattaforma, quello di entrambi? Proprio il “combinato disposto” delle norme pone il problema di una confusione che introduce ulteriore incertezza sul quadro giuridico e sulla libertà d’impresa.
In ogni caso, anche a voler accogliere l’interpretazione di chi sostiene la norma, va ricordato che il testo riporta solo su un generale rinvio al Codice e non già ulteriori elementi normativi.
Al contrario, ciò che semplicemente risulta dal testo (art. 6, “Sanzioni”) è che per la violazione di cui all’art. 4 sarebbe competente l’Agcm, secondo le disposizioni del Codice del Consumo in materia di pratiche commerciali scorrette.
Insomma la norma configura una nuova fattispecie di pratica commerciale scorretta: un qualunque limite all’utilizzo del software liberamente reperito in linea. Allo stesso modo sarebbe pratica commerciale scorretta ogni vincolo al diritto di installare il software che si desidera all’acquisto o utilizzo di altri software (salvo quelli obbligatori da norme imperative etc..). L’Agcm dovrà semplicemente valutare se in concreto c’è stato un impedimento o limite a installare software lecito o disinstallare contenuti. Tutto ciò non trova alcun riscontro nella disciplina europea in materia di consumer protection.
Diversamente la piattaforma potrebbe a buon diritto bloccare l’installazione di un software che inizialmente appare lecito ma utilizza contenuti in violazione delle norme sul copyright configurandosi come illecito, ma in questo caso l’illiceità andrebbe valutata da un giudice ordinario… allungando quindi i tempi di una decisione Agcm. Insomma una norma nel migliore dei casi confusa, che stabilisce diritti ma non chiarisce i corrispondenti obblighi e soprattutto non distingue tra titolari del software e titolari della piattaforma, che non prevede una proporzionalità tra gli obblighi e il potere di mercato dei soggetti a cui vengono imposti e che, in ultima analisi, complica l’attuale quadro e rischia di separare il mercato italiano dal resto d’Europa, con grave danno proprio per quel consumatore che si intenderebbe tutelare.