Il Global IT Report del World Economic Forum non ha fatto altro che mantenere in evidenza la situazione stagnante in cui si ritrova l’Italia nell’area del digitale. Una situazione che non è in via di miglioramento, nonostante il governo Monti abbia prodotto nel 2012 alcuni provvedimenti positivi anche se in gran parte parziali.
Il Piano Nazionale per la Banda Larga va a strappi ed è lontano dal solco indirizzato dall’Agenda Digitale Europea, che punta alla Banda ultralarga (oltre i 30 Mps), e le statistiche italiane mostrano come il progresso nell’uso di Internet e nell’accesso alla banda Larga (almeno 2 Mps) sia rallentato notevolmente negli ultimi due anni.
In base all’ultima rilevazione Istat, infatti, il tasso di crescita della popolazione di 6 anni e più che hanno usato Internet almeno una volta negli ultimi 12 mesi è passato dal 10% del 2009 e del 2010 al 5% del 2011 e al 2% del 2012, arrivando ad un dato complessivo del 51% contro il 68% della media europea.
Uguale tendenza ha il tasso di crescita delle famiglie che dispongono di un accesso ad Internet da casa a banda larga, che è passato dal 25% del 2009 e del 2010 al 6% del 2011 e del 2012, arrivando ad un dato complessivo del 52% contro il 67% della media europea. In entrambi i casi, il gap è chiaramente incolmabile con questo tasso di crescita.
In questo contesto appare chiaro come non sia possibile pensare ad azioni ordinarie di miglioramento. O si realizza un miglioramento significativo, un cambiamento profondo e pervasivo, oppure la situazione italiana rischia di deteriorarsi in modo non più recuperabile.
La strada del diritto universale
E se il digitale è la via obbligata per il futuro economico e sociale, allora la strada deve essere tracciata in modo indiscutibile, tale da spingere ad una tensione coerente dell’intera società italiana. Questa strada non può che passare dall’inclusione dell’accesso alla rete e del suo utilizzo tra gli elementi indispensabili del nostro essere comunità, della nostra interpretazione di cittadinanza, del nostro quadro di diritti ineludibili.
Perché in questo modo si ottengono, allo stesso tempo, due effetti:
- i cittadini, le imprese, prendono consapevolezza che non esercitare il diritto di accesso alla rete è una riduzione delle proprie opportunità di partecipazione alla comunità, alla vita sociale, alla vita economica. Non è un accessorio ma un elemento di cui forse non sono note ed evidenti tutte le potenzialità, ma che non può essere trascurato senza danni personali e sociali. E quindi deve essere preteso;
- le istituzioni sono obbligate a predisporre piani e strumenti in grado di permettere l’esercizio del diritto, non visto quindi come un “nice-to-have”, un miglioramento opportuno ma non necessario. Anzi, come un obiettivo da raggiungere prioritariamente.
Stiamo invece assistendo a positive azioni di passaggio da procedure analogiche a digitali in diverse aree della Pubblica Amministrazione (le ultime più famose, le iscrizioni scolastiche online e il CUD scaricabile solo online) senza però nessuna preparazione, senza nessun progetto globale di cambiamento, senza nessuna affermazione che questo passaggio determina allo stesso tempo nuovi doveri e nuovi diritti da parte dei cittadini (e in generale dei residenti e dei city-user).
In mancanza di un nuovo quadro di diritti di cittadinanza, è facile che si determinino provvedimenti inerenti l’Agenda Digitale senza prendere in considerazione azioni in tema di alfabetizzazione digitale.
Ecco perché, prima ancora che lo “statuto dei diritti delle comunità intelligenti” prescritto dalla legge “Crescita 2.0” del 17 dicembre 2012 è necessario a mio avviso operare su tre interventi di base:
- l’affermazione dell’accesso alla rete come diritto sancito in Costituzione;
- l’ampliamento dei termini del servizio universale dai 56kb attuali al minimo attuale per la definizione di banda larga (2Mps) per passare gradualmente (secondo un piano coerente con l’Agenda Digitale Europea) ai 30 Mps;
- l’ampliamento dei diritti di cittadinanza, includendo quelli legati al loro esercizio attraverso le tecnologie digitali, che modificano forme e limiti.
Alcune proposte
Per il primo punto esiste già un disegno di legge di modifica costituzionale presentato in Parlamento che si riconduce ad una formulazione realizzata da Stefano Rodotà in merito all’art.21, con l’introduzione di un art.21 bis “Tutti hanno eguale diritto di accedere alla Rete Internet, in condizione di parità, con modalità tecnologicamente adeguate e che rimuovano ogni ostacolo di ordine economico e sociale.”
Per quanto riguarda il secondo punto, l’accesso alla Rete in banda larga come diritto universale, bene comune non esclusivo e inalienabile deve essere supportato necessariamente dalla ridefinizione del servizio universale. Come tale, deve essere garantito a tutti i cittadini un livello di qualità predeterminato, indipendentemente dalle loro condizioni economiche, sociali e geografiche.
Il livello di qualità e la larghezza della banda devono essere definiti in modo da raggiungere l’obiettivo primario dello sviluppo sociale e economico, e quindi anche rispetto alle evoluzioni tecnologiche e alle situazioni presenti nei paesi UE, partendo da un livello minimo di banda e avendo un graduale obiettivo di garantire la banda larga di terza generazione a tutta la popolazione.
Gli operatori che forniscono questo servizio universale devono rispettare i principi della “net neutrality” (il principio secondo cui gli Internet Service Providers non possono discriminare tra diversi tipi di contenuti, dispositivi o applicazioni usate sulla rete), come ribaditi anche nell’Agenda Digitale Europea.
L’Unione Europea ha scelto di non obbligare i Paesi Europei su una strada uniforme sul tema del servizio universale, anche a causa delle forti resistenze degli operatori di telecomunicazioni, per cui ciascun Paese deve scegliere il proprio percorso. E il percorso italiano deve essere necessariamente di forte spinta, nell’ambito di un Piano Nazionale di diffusione che non può non avere tempi e tappe certe.
L’accesso alla rete non è solo una questione di infrastruttura o di servizio. Non è più solo una questione di tecnologie a disposizione, come non è un problema di commercio elettronico o di servizi offerti on-line dalla PA. È un tema centrale di cittadinanza e di democrazia.
Questo è anche quanto si stabilisce nella direttiva CE del 2009 “Ciascun cittadino dell’UE deve avere la possibilità di accedere a un insieme minimo di servizi di comunicazioni elettroniche di buona qualità a un prezzo abbordabile. Questo principio è noto altresì come principio del “servizio universale”. Per quanto riguarda i diritti di accesso a internet, qualsiasi richiesta ragionevole di connessione a una rete di comunicazione pubblica in postazione fissa deve essere soddisfatta da almeno un operatore. Tale connessione deve essere in grado di supportare la trasmissione di voce, fax e dati a una velocità sufficiente a permettere l’accesso funzionale a internet e la fornitura di servizi di telefonia vocale.
Ciò vale anche per gli utenti finali disabili che devono beneficiare di un accesso e di una scelta equivalenti a quelli della maggior parte degli utenti finali.”
Un passaggio, questo dell’accesso alla rete come diritto e della banda larga come servizio universale, che deve essere accompagnato territorialmente da iniziative come quelle, in via di espansione in molte città, del “wifi gratuito” negli spazi pubblici, oltre che delle piazze telematiche e dei punti di accesso pubblici assistiti, infrastrutture di sostegno per l’esercizio del diritto di accesso.
Non un passaggio risolutivo, ma credo un passaggio necessario per includere le politiche sul digitale nel novero delle priorità ineludibili.
In vista di una ridefinizione più ampia della cittadinanza, che coerentemente con quanto approvato in sede di ONU stabilisca che “gli stessi diritti che le persone hanno offline devono essere anche protetti online”.
Diritto di accesso e servizio universale: provvedimenti che potrebbero essere presi subito in carico dalla “comunità dei politici innovatori” da cui ci si aspetta tanto.
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