Nello stesso giorno in cui Fpa presenta il rapporto 2016, il commissario Diego Piacentini all’Agenda digitale ha pubblicato il proprio primo manifesto esplicito di innovazione: dodici principi.
Io ci trovo alcune interessanti analogie tra le due visioni, anche se pure alcune- apparenti- differenze.
Dico apparenti perché finora abbiamo solo lo scheletro dell’idea di Piacentini. Molto dipenderà da ciò che ancora non sappiamo con precisione, cioè come intende attuarla. Un punto essenziale: sappiamo che è proprio l’attuazione dell’Agenda ciò che finora è mancata.
Ma ora abbiamo chiara una visione. I lettori potranno farsi una propria idea leggendo i principi e la sintesi del rapporto di FPA: la coincidenza tra le due riflessioni non è solo temporale.
FPA rileva che anche l’ultima riforma PA è stata finora un “frutto mancato”. Troppo centralistica, basata su una mentalità fordista, vecchio stampo. Quando invece l’innovazione ormai, come insegnano gli esempi internazionali di amministrazioni virtuose, si costruisce dal basso e con la cooperazione. Facendo rete. In pieno spirito internet. Come pure sta cominciando a succedere- primi fragili germogli- anche in Italia (si pensi in particolare all’esperienza dei Comuni trentini).
Il presidente di Fpa Carlo Mochi Sismondi ha riassunto in otto punti come dovrebbe essere una buona riforma PA. E quindi gli otto punti per cui quella attuale- come le passate- non è stata finora una buona riforma.
1. Una buona riforma non si fa con le norme. 2. Una buona riforma crea valore pubblico non solo efficienza. 3. Nasce e vive in un clima di fiducia. 4. Una buona riforma è rispettosa della diversità. 5. Va curata 6. Deve essere aperta e partecipata. 7. Una buona riforma deve essere sperimentale e basata sui dati. 8. Costa e richiede investimenti veri.
Il discorso di FPA riguarda tutta la trasformazione della PA, ma si applica in modo particolare a quella digitale. Che è la madre di tutte le leve di trasformazione.
Anche la Commissione europea, come pubblicato ieri sul nostro sito con un intervento a firma di Andrea Servida, pensa che non ci sia abbastanza partecipazione nei nuovi servizi digitali PA italiani, da parte di cittadini e amministrazioni.
E’ una lacuna di cui abbiamo scritto spesso, in modo esplicito. I Comuni, per esempio, lungi dall’essere coinvolti da subito nell’innovazione, ora non solo la devono subire ma anche in questo si sentono spesso abbandonati a sé stessi.
Eppure il ruolo del territorio è fondamentale, in questa fase attuativa. A ben vedere non solo nella riforma dei servizi PA, ma anche per la banda ultra larga e per quel cambiamento culturale necessario a Industry 4.0.
Vediamo Piacentini. A prima vista il suo è un discorso in continuità con quanto progettato finora (come del resto, verrebbe da pensare, in continuità è l’attuale Governo).
Dice che svilupperà alcuni progetti (Spid, Anpr, PagoPA) non per innovare la PA (due anni di mandato del commissario non bastano) per inserire il seme dell’innovazione, che poi dovrà diventare di default. Questo principio era già in origine, quando la cabina di regia di Francesco Caio ha elaborato i progetti digitali fondamentali.
Piacentini cita poi il modello delle API pubbliche e aperte, le piattaforme interoperabili centrali su cui può nascere un ecosistema di servizi pubblici (anche locali) e privati. Ma anche questo è in continuità con il passato: era una idea uscita dalle elaborazioni del Comitato di indirizzo dell’Agid l’anno scorso e poi assunte nel (futuro) piano triennale della stessa Agenzia.
Piacentini lo spiega bene.
“I sistemi informatici della Pubblica Amministrazione devono essere connessi tra loro e parlare la stessa lingua, rendendo disponibile l’informazione immediatamente dove serve. Se le applicazioni si parlano non sarà mai il cittadino o il funzionario pubblico a estrarre dati da un sistema (magari stampando su carta) per inserirli in un altro sistema, né sarà chiesto al cittadino di fornire dati di cui la PA già dispone. Tutte le applicazioni dovranno esporre interfacce comprensibili alle macchine (le famose API – Application Programming Interface) e lavorare in maniera integrata, collaborativa e sicura, facilitando il riuso delle applicazioni esistenti per costruire nuove soluzioni più potenti e innovative. Pochi componenti centrali (infrastrutture immateriali) forniranno funzionalità di base; ogni macro ambito potrà così concentrarsi solo sullo sviluppo degli applicativi specifici degli ecosistemi (ad esempio gli ecosistemi di sanità, scuola, giustizia, fisco, imprese, ecc.). Ove possibile le interfacce dovranno essere aperte e diventare strumenti abilitanti per i privati che potranno costruire applicazioni per interagire con la Pubblica Amministrazione. Così facendo il cittadino comunicherà i suoi dati una volta e basta”.
Questo modello aperto di ecosistema è in pieno spirito internet e ha molte attinenze con quanto, secondo il rapporto FPA, finora è mancato nella riforma PA (o forse dovremmo dire in qualunque vera trasformazione digitale e non dell’Italia).
Analogie ci sono anche nel punto in cui Piacentini dice che bisogna fare meno norme. Meno codici, dice. “Ma più codice”, aggiunge.
Qui forse possiamo rinvenire un passo avanti nella riflessione. L’idea è che le API possono abilitare l’automatizzazione di alcuni processi della PA, ossia l’applicazione di molte regole.
“Bisogna fare in modo che nelle leggi – generali e astratte per definizione – vengano scolpiti solo principi capaci di resistere al tempo e incapaci di imbrigliare innovazione e tecnologie del passato. Le regole, quelle di dettaglio, vanno tradotte in bit, mentre le convenzioni per lo scambio dei dati tra amministrazioni in API, i procedimenti amministrativi nei quali l’attività discrezionale dell’amministrazione è assente o modesta, vanno trasformati in processi machine to machine più efficaci e più democratici”.
Questa visione algoritmica del lavoro ha una tradizione ingegneristica, figlia del modo di ragionare dei big del web. L’idea secondo cui bisogna quanto più possibile automatizzare l’applicazione di una regola, trasformandola in un algoritmo preciso (una sequenza di compiti in cui se succede qualcosa l’output sarà immancabilmente un’altra cosa prestabilita). Su tutto questo un’altra idea: che l’automatizzazione non solo sia efficienza ma anche “democratica” (perché è una macchina a decidere dovrebbe farlo in modo imparziale). Qui si può nascondere il germe di una ideologia- anche questa molto “Silicon Valley- che invece ultimamente tende a essere messa in discussione.
L’algoritmo può incorporare infatti anche discriminazione ed errori e in quanto automatismo sottrarsi allo spirito critico umano.
Questa automatizzazione forse può essere auspicabile in alcuni contesti limitati del lavoro della PA, ma il rischio da evitare è che si trasformi nello stesso principio da cui finora sono arrivati tutti i flop della riforma PA. Cioè un eccesso di centralismo, di sfiducia nelle persone della PA; un difetto di ascolto dei territori. E questo rischio può emergere anche dal fatto che nei punti di Piacentini mai si parli appunto di territori; di co-progettazione e condivisione dal basso.
Sembra che al momento convivano due forze, nella visione centrale della riforma digitale PA (la visione presente a Palazzo Chigi ma anche nel Parlamento, da cui sono emerse le modifiche al Cad).
Da una parte la forza internet dell’apertura e degli ecosistemi. Dall’altra, la forza disruptive degli innovatori che vogliono fare switch off. Quest’ultima a volte si può tradurre in una campagna contro i retrogradi che resistono ai cambiamenti. Una visione che si può rinvenire nelle nuove regole che vogliono ridurre gli sprechi IT della PA con una centralizzazione della spesa; ma anche in fondo nello stesso mandato centralistico di Piacentini, che ha tra i propri poteri la possibilità di commissariare le PA inadempienti su progetti digitali.
Non vogliamo negare l’esistenza di queste forze reazionarie. Il rischio però è di concentrare le energie sulla foga centralistica disruptive, invece che sulla creazione di percorsi condivisi dal basso. Insomma, le resistenze non vanno combattute dall’alto- e da soli- ma creando reti virtuose dal basso, sui territori (oltre che con i privati; ma questo a Piacentini è ovviamente chiaro).
Serve coniugare la visione disruptive con una certosina cura di cambiamento omnes et singulatim. Come per un vivaio e una pianta, appunto. Perché l’innovazione la si può far nascere solo dall’interno delle persone, valorizzando le loro migliori energie. E il rischio qui è una conseguenza che è proprio l’opposto di quella desiderata dallo stesso Piacentini e dagli innovatori. E ciò che non cambi niente: che gli anticorpi della vecchia PA, attaccati in modo così frontale, riescano a fare melina. Costituendo resistenza burocratica fino al prossimo cambio di Governo (e di commissario). Riuscendo a inserire anche nel cuore delle norme gli anticorpi a un vero cambiamento: l’abbiamo già visto tante volte; ed ecco perché alla furia da rottamatore del Governo ha corrisposto finora anche una tendenza reazionaria nelle norme, dove il nuovo Cad si è rivelato un prudente rifacimento del precedente. E dove le riforme digitali sono puntualmente accompagnate dalla dicitura “senza ulteriore spesa per l’amministrazione”.
Riforme a costo zero. Perché nulla- nonostante i proclami rivoluzionari e forse anche per via di quella rivoluzionarietà così espressa- cambi davvero.
Non è così che possiamo cambiare l’Italia. L’abbiamo capito e il rapporto FPA ce lo ricorda. Adesso serve uno spirito internet autentico, per riuscirci. Nella maniera del peer to peer, però, e (non solo) in quella server-client del cloud.
Siamo fiduciosi: lo spirito internet è cosa ben nota a Piacentini e a tutti gli innovatori degni di questo nome. Come il principio secondo cui- come anche insegna il modello Amazon- è con gli utenti e con la fiducia che si può costruire un cambiamento.