Nuove reti

Piano banda ultralarga, tutti i diavoli che si celano nei dettagli

Il piano del governo per portare la banda ultralarga nelle aree C e D tramite fibra spenta in concessione ha i presupposti per mettere in atto una rete aperta, che sulla carta dovrebbe portare concorrenza e innovazione. Sono però i dettagli, a partire dal tema delicato dell’accensione della rete, che determineranno l’esito, tra deserto digitale e florido mercato di servizi innovativi

Pubblicato il 12 Apr 2016

Marco Forzati

RISE Research Institutes of Sweden, Esperto esterno per la Commissione europea

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Sembra ormai consolidato, la banda larga nelle aree a fallimento di mercato (le cosiddette aree C e D) arriverà con un intervento diretto con gestione in concessione (quello che la Guida della Commissione europea chiama “rete comunale a gestione privata”). Ovvero, la rete passiva verrà finanziata al 100% dal pubblico e realizzata da un concessionario, da individuare mediante gara a evidenza pubblica. La rete resterà di proprietà pubblica, ma verrà data in gestione al concessionario per 15-20 anni, preferibilmente un grossista che darà accesso alla rete a tutti gli operatori a pari condizioni.

Ci sono tutti i presupposti insomma per una rete aperta, che sulla carta dovrebbe portare gigabit, concorrenza e innovazione. Non sono ancora chiari però diversi dettagli, che il lavoro febbrile che il governo sta facendo (per pubblicare i primi bandi a fine mese) dovrà definire.

Per esempio quale sarà esattamente il “meccanismo di prezzo di accesso alla rete finalizzato a remunerare i costi propri” annunciato da Agcom? Che logica seguirà la costruzione del prezzo del canone di concessione? Che tipo di vincoli contrattuali avrà il concessionario, per esempio in termini di topologia e di numero di aree attive e utenti abbonati? Visto che siamo in zone a bassa densità abitativa, avrà l’obbligo di “accendere” la rete (ovvero di fornire un servizio attivo di accesso) all’ingrosso?

Qui più che mai, il diavolo sta nei dettagli. Ed è forse la risposta all’ultima domanda che pesa maggiormente. Perché se il modello non include in qualche modo la fase attiva, il rischio di cattedrali nel deserto è elevato, come dolorosamente dimostrato in altri ambiziosi progetti d’iniziativa pubblica in giro per l’Europa, finiti in reti scarsamente attivate, a corto di clienti e in difficoltà finanziarie.

Ci si fa intendere che il candidato più papabile per la concessione sia Enel, il quale sta stringendo accordi commerciali con Vodafone e Wind per “accendere” la rete e portare i servizi (Internet, telefonia, TV) nelle aree remunerative del Paese (cluster A e B). La speranza è che accordi simili vengano stretti anche per la rete in concessione (cluster C e D). Soluzione che potrebbe avere più successo sulla carta che nella realtà. Infatti, i costi per utenza per accendere la rete sono inversamente proporzionali alla densità abitativa. Molte aree quindi rischiano di rimanere spente, o di venire servite da un solo operatore, con tanti saluti alla concorrenza promessa dal modello di rete aperta.

Una soluzione più robusta potrebbe proprio quella di dare al concessionario l’obbligo di accendere le aree qualora gli operatori lo richiedano (e d’altronde anche Enel sembra intenzionata a fornire servizi attivi nelle aree A e B). In questa situazione, sta a ciascun operatore valutare se un’area presenta un numero sufficiente di utenze da poter giustificare l’istallazione di propri apparati attivi, nel qual caso, quando un nuovo utente decide di sottoscrivere un contratto, l’operatore richiederà l’accesso all’infrastruttura passiva. In caso contrario, l’operatore richiederà un accesso attivo (bit-stream) e il concessionario sarebbe tenuto a installare l’apparato attivo (senza contributo pubblico) per accendere l’utenza richiesta. Apparato che sarà in grado poi di accendere nuove utenze per qualsiasi operatore riceva richieste in quell’area.

In questa soluzione, il ruolo del concessionario diventa più attivo e oneroso, e perché il modello possa reggersi, bisogna che i prezzi di accesso siano definiti con cautela. La soluzione però garantirebbe l’attivazione di tutte le aree (basterebbe un solo utente in ogni area) e darebbe al concessionario un incentivo a promuovere la nuova rete in maniera aggressiva soprattutto nelle zone a bassa densità abitativa (per poter spalmare il costo degli apparati attivi sul maggior numero di utenze). Inoltre aprirebbe il mercato a un numero elevato di operatori, locali e nazionali, come dimostrano per esempio le esperienze di reti pubbliche svedesi, alcune delle quali ospitano una dozzina di operatori che, grazie all’accesso attivo, possono permettersi di fornire 100 Mb/s simmetrici a qualsiasi utenza rurale per 25 euro al mese.

Il vantaggio della soluzione italiana, rispetto alle esperienze scandinave, sarebbe di evitare la frammentazione delle reti (ciascuna gestita da un concessionario diverso, a volte pubblico, a volte privato), e abbattere i costi per servire una determinata zona. Insomma, stiamo a vedere che forma prenderanno questi bandi e chissà che l’Italia avrà presto qualcosa da insegnare al resto d’Europa.

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