la critica

Piano triennale, Lisi: “Un errore abbandonare la nostra tradizione digitale”

Un documento che sembrerebbe troppo improntato sulla voglia di stupire, pieno di termini e parole d’ordine nuovi ma che non sembra disposto a preservare la tradizione normativa, amministrativa e per certi versi archivistica del nostro Paese

Pubblicato il 31 Mag 2017

Andrea Lisi

Coordinatore Studio Legale Lisi e Presidente ANORC Professioni, direttore della rivista Digeat

digital digitale

Promesso dal Commissario Straordinario Diego Piacentini per i primi tre mesi del 2017, il «Piano Triennale per l’Informatica della Pubblica Amministrazione», arriva solo in questi primi giorni d’estate e non possiamo non occuparcene. C’è infatti la necessità di una bussola, per orientarsi nel groviglio di norme e intendimenti che caratterizzano la nostra Agenda Digitale, ferma ai nastri di partenza da tanto tempo.

Sfogliando per la prima volta le pagine del Piano salta in mente quasi istantaneamente la frase di Totò “Non so leggere, ma intuisco” e non è un buon segnale purtroppo.

Cosa allora è possibile intuire? E’ possibile intuire che la portata di questo cambiamento sia colossale e verosimilmente irreversibile, ma occorre tuttavia sforzarsi per leggere tra le righe del Piano chi dovrebbe supportarne la realizzazione e soprattutto lo sviluppo. Partiamo allora dall’autodefinizione del documento stesso: “Il Piano propone un modello sistemico, diffuso e condiviso, di gestione e di utilizzo delle tecnologie digitali più innovative, improntato a uno stile di management agile ed evolutivo, e basato su una chiara governance dei diversi livelli della Pubblica amministrazione”.

Prima di tutto ci sono tanti termini e parole d’ordine nuovi. Del resto, si dice* che “siamo le parole che usiamo e che la rivoluzione comincia da questo” e devono crederci tantissimo lassù, nelle stanze dei bottoni, dove si è cercato di impostare un cambiamento radicale, partendo dal linguaggio. Un modo per provare a cogliere subito la ratio di questa miscellanea complessa di obiettivi, tempistiche e strategie, può essere perciò quella di intraprendere una direzione interpretativa basata sulla statistica delle parole e degli slogan inclusi nel Piano.

Il termine cloud è usato, nel documento di 133 pagine, quasi 100 volte. La parola archivio solo 16 volte (e solo perché indispensabile in alcune definizioni). La parola protocollo 11 volte. Conservazione 33 volte. Trasparenza 4 volte. La fascicolazione non esiste più. La semplificazione 8 volte. L’alfabetizzazione non esiste (!). Come non esistono le vecchie competenze giuridiche o archivistiche. Oggi ci sono i Technical Project Manager o i Big Data Team composti da data scientist, big data architect e data engineer. La democrazia elettronica non esiste, ma il digital first sì. I big data sono citati 23 volte e gli open data 25 volte. La parola “dati” si ritrova ripetuta più di 400 volte (spesso accompagnata dai metadati) e la parola documenti (più o meno informatici) neppure 30 volte. La fredda statistica ci fa subito intuire che aria tira: il tempo è cambiato e il Codice dell’amministrazione digitale è vecchio, così come i suoi protagonisti.

Le tecnologie sono indicate quale parte strutturale e imprescindibile del Piano e anzi, come già indicato nel documento, finora l’“errore” commesso è stato proprio quello di concepire le “politiche dell’innovazione” come tese a “digitalizzare processi esistenti, mentre il digitale rappresenta una leva di trasformazione economica e sociale che, mettendo al centro delle azioni i cittadini e le imprese, rende l’innovazione digitale un investimento pubblico per una riforma strutturale del Paese”. Appare dunque chiaro che: chi finora ha avuto la percezione che l’innovazione non avrebbe del tutto devastato la realtà, ma “semplicemente” favorito la conversione in termini digitali, attraverso la reingegnerizzazione e la razionalizzazione degli elementi positivi, la correzione o l’elisione di quelli negativi e soprattutto la promozione delle competenze e di solidi profili professionali, evidentemente sbagliava.

Iniziamo con il “possedere” questa nuova consapevolezza: è una radicale trasformazione quella che si intende avviare in tre anni ed è qualcosa di diverso persino rispetto alla stessa (banale e semplice) innovazione o alla (“consueta”) crescita.  Come realizzare questo processo, lo vedremo con calma (o forse semplicemente lo lasceremo al caso o al miracolo dell’innovazione digitale).

Insomma, dobbiamo sforzarci di proiettarci in un futuro dove, perdonando il gioco di parole, neppure la legge “detterà legge”, ma lo faranno le tecnologie imperanti, alleate alle logiche del mercato. Non si tratta – badate bene – di un’interpretazione forzatamente catastrofista del Piano, ma di una lettura che non si accontenta del semplice risultato dato dall’intuizione per la comprensione del testo.

Un testo che si dimostra per certi versi innovativo, ma proprio per questo scarsamente disposto a recepire quella che è la tradizione normativa, amministrativa e per certi versi archivistica del nostro Paese, (anzi, si ha la terribile sensazione che la ignori del tutto) e che confida nella sola, fideistica, evoluzione della tecnologia.

In realtà, a pagina 12 del Piano si legge testualmente “l’AgID trasforma il Codice dell’amministrazione digitale (CAD) in processi attuativi, regole e progetti che vengono integrati nel Piano e monitora l’attuazione dei progetti da parte delle amministrazioni”. Evidentemente il Codice è già stato parecchio trasformato, tanto che si fa fatica davvero a riconoscerlo in tutti questi nuovi slogan.

A nostro avviso, far perdere PA e cittadini negli slogan di questo documento è il modo peggiore per affrontare questo necessario cammino in cui comunque tutti gli esperti del settore da tempo credono. In realtà, il rischio che si corre è di generare – almeno nella mente di chi ha la fortuna (o sventura?) di leggere con attenzione il Piano – una pericolosa frattura tra realtà e informatica, nonché tra cittadini e informatici…rischio paventato proprio dallo stesso Commissario Straordinario Diego Piacentini, il quale intervistato da Luca Attias, ha evidenziato come l’informatica debba invece entrare nelle case degli italiani in modo naturale e non essere avvertita come qualcosa di separato dal mondo reale.

Siamo dunque capaci di leggere tutto questo? Attenzione, perché il digitale non parlerà più il linguaggio dei documenti e degli archivi e non guarderà più alla sedimentazione della memoria, ma asseconderà l’implementazione degli asset hardware destinati a supportare la migrazione da fisico a virtuale dei data center.

Il tutto avverrà in un contesto che per “agevolare la modernizzazione della Pubblica amministrazione partendo dai processi”, esorta a superare la “logica delle regole tecniche e delle linee guida rigide emesse per legge. Esse dovranno essere dinamiche e moderne e puntare alla centralità dell’esperienza e ai bisogni dell’utenza”.  A nostro avviso, il Digital first, non dovrebbe comportare verosimilmente il resettare il resto, ma sfruttare in modo multidisciplinare quanto finora prodotto come base per una crescita equilibrata, che tenga conto non solo della dimensione presente, ma anche di quella futura, in termini non solo di costruzione, ma anche di restituzione della memoria di questo stesso momento storico[1].

Diciamolo con schiettezza e amarezza: il documento è infarcito di tensione acritica verso piattaforme abilitanti e centralizzate, di fiducia cieca verso il mercato digitale e di ricerca ossessiva di sorprendere. È del tutto pacifico concepire il patrimonio informativo pubblico come legato a doppio filo alle logiche del (o forse dovremmo dire di un particolare) mercato?[2]. Sebbene le Pubbliche Amministrazioni non “siano sole” nell’universo del digitale e il loro percorso di crescita sia supportato da una precisa strategia di respiro Europeo, la “Strategia Europa 2020”, rileggendo con attenzione il Piano, si ritrovano più mani redattrici, tutte diretta espressione della governance confusa che caratterizza il nostro Paese in ambito digitale.

Una prospettiva che parla il linguaggio del management – finora “sconosciuto” alle Pubbliche Amministrazioni – e inserisce in un scenario, già complesso, nuovi attori singoli (e mirabolanti team)[3] chiamati ad agire sul delicato paradigma di evoluzione del sistema informativo, da cui tutto nasce e a cui tutto ritorna.

E tutti gli slogan finali e oseremmo dire “motivazionali” relativi ai “Principi per lo sviluppo dei di progetti digitali” sembrano usciti dal cilindro di un esperto di counseling o di programmazione neuro linguistica (PNL), piuttosto che da un tecnico dell’amministrazione digitale. E se a questi principi sono dedicate 6 pagine (da 105 a 110), bastano 6 svogliate righe, a pag. 104, per le “Indicazioni sulla conservazione dei documenti informatici” (ma tanto, quella è “roba vecchia”! La memoria digitale non ha storia nel mondo liquido dell’innovazione digitale).

In conclusione non dimentichiamoci che il nostro Paese ha iniziato a muoversi in anticipo per la corsa all’oro dell’innovazione, ma non viene mai citata ad esempio la CNS (Carta Nazionale dei Servizi). Tra le “piattaforme abilitanti” ci sono CIE (Carta d’Identità Elettronica), SPID, PagoPA, ANPR, Faturazione Elettronica, ComproPA, NoiPA e via via sino ai Poli di conservazione e al misterioso Sistema di gestione dei procedimenti amministrativi nazionali (cosa sarà e come potrà mai essere realizzato lo scopriremo solo digitalmente vivendo). Della CNS (investimento corposo in tutti questi anni per tanti enti pubblici locali), di fatto, non c‘è più traccia. Immaginiamo che si stia assistendo a una nuova forma di abrogazione implicita di una parte del Codice dell’amministrazione digitale attraverso una mancata citazione nel Piano. Ormai anche la gerarchia delle fonti normative è roba vecchia! Del resto anche alla CEC PAC è capitato di essere messa in soffitta con una semplice circolare Agid. Oggi andiamo oltre anche su questo.

Ripetiamoci, in conclusione, la domanda: siamo veramente capaci di leggere questo documento? O siamo solo in grado di intuire quello che potrebbe accadere?

PS: segnaliamo, per chi volesse approfondire, anche il commento video dell’Avv. Andrea Lisi

[1] Alla luce di tali considerazioni, elemento curioso in questo senso appare l’inclusione, nel glossario allegato al Piano, della singolare definizione di «conservazione perenne», quale «processo di conservazione documentale di lungo periodo che prevede il rinnovo delle marche temporali (timestamp) ogni dieci anni. Sono sottoposti a tale processo gli atti di rilevanza storica e culturale relativi a procedimenti amministrativi conclusi da oltre 40 anni.» che vede responsabile il solo Archivio Centrale dello Stato, di questa operazione (puramente tecnologica, ma rilevante ai fini storici e culturali) ignorando totalmente da un lato l’assetto territoriale degli istituti archivistici e dall’altro quale sia il complesso delle operazioni effettivamente rilevanti ai fini della storicizzazione della documentazione e per la salvaguardia della memoria
[2]Ė una domanda tutt’altro che scontata, considerando che nei prossimi tre anni le infrastrutture fisiche nazionali previste dal Piano per la salvaguardia del patrimonio informativo delle PPAA coincideranno con degli “asset hardware” appartenenti a due macro gruppi, i data center e i cloud, ai quali se ne aggiungerà un terzo dedicato alla connettività.  Il Piano è scandito da un cronoprogramma che, se rispettato (…), porterà all’evoluzione dei sistemi informativi, partendo da un censimento dei data center fino ad arrivare alla razionalizzazione in una prospettiva di accentramento verso la costituzione di Poli strategici nazionali, all’interno dei quali i processi da attuare e le professionalità richieste restano ancora tutte da definire da parte della stessa Agid. In buona sostanza nel 2019 le pubbliche amministrazioni dovranno già essere in grado di dedicarsi semplicemente alle operazioni di migrazione verso i Poli nazionali o verso il Cloud nei tempi specificati nel proprio Piano di razionalizzazione delle risorse ICT. Indicazioni queste complementari rispetto a quelle sulla connettività, sulle piattaforme abilitanti di diversa natura, sull’interoperabilità e la sicurezza, e non ultimo sul design, la realizzazione, la gestione l’evoluzione e la manutenzione del progetto e sulla gestione di quelli preesistenti.
[3] Ed effettivamente leggere con pazienza il lungo elenco presente nel Piano contenente gli “attori del processo di trasformazione digitale della PA” fa cogliere appieno la confusione nella governance che a tuttoggi si respira: il Governo, il Dipartimento della Funzione Pubblica, il Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF), il Commissario per l’attuazione dell’Agenda digitale e il suo Team, l’AgID e il suo Comitato di indirizzo, le Amministrazioni regionali e le Province autonome, le Amministrazioni centrali e locali,  le società in house, gli Enti strumentali, Consip e le centrali di committenza.
*Giovanna Zucconi: http://www.valigiablu.it/doc/142/siamo-le-parole-che-usiamo-la-rivoluzione-comincia-da-qui.htm

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