Il Piano triennale Agid ha una duplice valenza. Una prima valenza è interna alla PA, che il Piano mira a modernizzare radicalmente, superando i silos tra le varie Amministrazioni, integrando i dati e rendendoli accessibili attraverso l’approccio “API first”, mirando ad assicurare ai cittadini un vantaggio in termini di semplicità di accesso e miglioramento dei servizi digitali esistenti.
La seconda valenza è quella che Alessandro Longo chiama “l’effetto di leva abilitante sulle aziende private”: e cioè l’effetto volano che il miglioramento di efficienza della Pubblica Amministrazione dovrebbe generare, favorendo la crescita digitale dell’economia del Paese.
Ora, tutti noi facciamo il tifo per l’Agid e per il Team per la Trasformazione Digitale; ma il tifo – come recenti avvenimenti calcistici dimostrano – da solo non basta. Vediamo quindi come queste due valenze si correlano nel piano, quali sono i principali elementi di criticità e come si possono superare.
Il Piano Strategico Triennale è un documento enciclopedico, che contiene gli obiettivi generali, quelli di dettaglio, chi deve fare che cosa e entro quando. Ora, buttare il cuore oltre l’ostacolo va bene, ma “cum judicio”: ad esempio, se gli obiettivi sono tanti, in tempi così ristretti, se le competenze sono così scarse, se i comuni sono alla canna del gas e non possono spendere né per integrare i moduli standard con i loro patchwork di applicazioni legacy (è il motivo per cui sono così diffidenti rispetto all’ANPR), né –sia mai detto – per assumere, forse sarebbe il caso di definire alcune priorità fattibili in tempi ragionevoli e chiarire le risorse con cui finanziare la migrazione, specialmente dei piccoli e medi comuni.
Come rileva l’ANCI, “deve essere chiaro che lo Stato non può prima indicarci di seguire la strada della centralizzazione dei sistemi e poi non permetterci di adeguare i nostri software per agganciarci ad essi.”
Altri osservatori hanno già puntualizzato le problematiche relative alla governabilità, alla mancanza di modelli attuativi, all’esigenza di forme strutturate di monitoraggio. Sono convinto d’altronde che queste criticità sono già all’attenzione del Commissario Straordinario e dell’Agid.
Mi interessa invece soffermarmi maggiormente sull’“effetto (del Piano come) leva abilitante sulle aziende private”
E l’anello di congiunzione tra le due valenze sta evidentemente nella parte sugli Ecosistemi, ovvero quei settori in cui maggiormente sui può vedere l’effetto propulsivo della crescita digitale alimentata dalla collaborazione pubblico -privato. E qui si evidenzia la suggestione “fuggettiana”, che peraltro pervade l’intero piano, e che Alfonso Fuggetta giustamente rivendica: “Livello strategico: il modello (del Piano) è basato sul principio della coopetition e su ecosistemi nei quali si distingue tra fornitori di sistemi e servizi di backend (“aperti” tramite API) e sviluppatori di applicazioni e siti web (sistemi di frontend). Il pubblico presidia principalmente il backend, aprendo ai privati il mercato dei frontend.” Suggestione che tuttavia non viene declinata compiutamente nel capitolo del Piano dedicato agli ecosistemi.
Teniamo presente infatti che la percentuale di spesa della PAC + Difesa è pari al 7,9% del mercato, mentre PAL + Sanità (l’80% della spesa regionale) vale il 7,3%. Se la spesa pubblica in ICT rappresenta solo il 15% del mercato e non certamente la sua parte più dinamica – potrà rappresentare al massimo un “lubrificante” per la crescita digitale del Paese, ma la componente fondamentale della crescita dovrebbe esser data proprio da quei servizi che l’iniziativa privata dovrebbe essere stimolata a sviluppare.
Di questo invece nel Piano non si parla: si elencano diffusamente una pletora di Ministeri e di Pubbliche Amministrazioni che dovrebbero sviluppare servizi per i 12 Ecosistemi proposti, ma in nessun modo si affronta il problema di come incentivare i privati a sviluppare un ruolo trainante nello sviluppo di questi nuovi servizi. Una carenza su cui probabilmente varrebbe la pena di riflettere.