CULTURA DIGITALE

Piattaforme digitali in overload, ecco perché servono terapie anti-doping

E’ ancora in atto la scossa tellurica della disruption generata dalla proliferazione di piattaforme. Si fanno largo nuove geometrie competitive e forme di comunicazione. Che aprono però la strada a effetti collaterali “tossici” causati da un’accelerazione della domanda di efficienza e velocità di azione. Un quadro completo

Pubblicato il 25 Mag 2020

digitale

Siamo talmente abituati a servirci di piattaforme digitali che difficilmente ci rendiamo conto di quante ne utilizziamo ogni giorno, qualsiasi professione facciamo. Senza contare quelle che utilizziamo nella vita personale per fare ricerche online, ascoltare musica, prenotare taxi, treni, vacanze. Passiamo ai raggi X l’ecosistema piattaforme e il suo impatto sui mercati digitali, approfondendo vantaggi e limiti.

Definizioni della piattaforma digitale

Esistono diverse definizioni del termine piattaforma. Ci piace quella contenuta nel libro del 2016 Platform Revolution: How Networked Markets Are Transforming the Economy – and How to Make Them Work for You di Geoffrey G. Parker, Marshall W. Van Alstyne, and Sangeet Paul Choudary. “Una piattaforma è un business basato sull’abilitazione di interazioni che creano valore tra produttori e consumatori esterni. La piattaforma fornisce un’infrastruttura aperta e partecipativa per queste interazioni e ne stabilisce le condizioni di governance. Lo scopo generale della piattaforma è creare scambi di valore tra gli utenti e facilitare lo scambio di beni, servizi o denaro, consentendo così la creazione di valore per tutti i partecipanti”.

Si nota subito che alla base del concetto esiste una sorta di “mutuo” scambio tra gli utenti facilitato dalla piattaforma stessa che, in tal modo, ne trae valore per sé e per gli utenti. La loro evoluzione in ogni ambito della nostra vita è stata facilitata dalla diffusione del digitale che, eliminando le barriere di tempo e spazio, e impiegando sistemi sempre più intelligenti di connessione di dati, cose e persone stanno trasformando radicalmente l’essenza stessa della catena del valore.

Esistono molti aspetti che ne caratterizzano il funzionamento e l’evoluzione, ma volendo trattare soprattutto il tema delle piattaforme di comunicazione, senza dubbio, uno dei principali è che eliminano gli intermediari, quelli che in inglese, sono definiti i “gatekeeper”. Per questo motivo sono state accolte con molto entusiasmo ma oggi, a diversi anni dalla loro prima apparizione di alcune di loro negli anni ’90, possiamo dire che stiano esse stesse diventando i nuovi intermediari se, come dice Luciano Floridi, più che vera e propria disintermediazione si deve parlare di nuova intermediazione.

I campioni dell’ecosistema

L’altro aspetto interessante è il fatto che molto spesso questi business creano valore utilizzando risorse che non possiedono e quindi riescono a crescere molto più rapidamente rispetto alle aziende tradizionali. Si pensi ad Airbnb o a Uber solo per citare alcuni tra gli esempi più noti. Il successo di una piattaforma sta nella capacità di gestire le informazioni e facilitare il business della comunità in cui opera, distribuendo per essa e per la sua comunità il valore aggiunto creato.

Un altro esempio è Amazon che, oltre a utilizzare per sé i servizi creati che sono quelli normali di qualsiasi grande centro commerciale, fornisce la sua logistica, il suo cloud, i suoi sistemi di lettura intelligente della domanda anche per i venditori e le aziende che normalmente, in un business tradizionale, sarebbero suoi concorrenti.

L’ascesa delle piattaforme sta causando profondi cambiamenti strutturali in molti settori che stanno trovando nuove geometrie competitive e nuove forme di comunicazione.

Una differenza sostanziale riguarda proprio la comunicazione perché per diffondere questi modelli tra le comunità di riferimento, acquisiscono particolare valore le strategie pull progettate per incoraggiare la viralità rispetto a quelle più tradizionali push come la pubblicità e le pubbliche relazioni. Anche queste cambiano nel profondo i propri obiettivi perché sono ragionate in ottica di valore aggiunto da far arrivare ai diversi interlocutori: il mittente, la rete esterna e il destinatario. Le piattaforme che funzionano meglio sono quelle che riescono a generare maggiore valore per le loro comunità di riferimento in termini di facilitazione della creazione di valore, di accesso al mercato e alla domanda o agli strumenti di produzione e comunicazione.

La spinta a un approccio aperto

Anche le comunità di riferimento cambiano molto perché non si tratta soltanto di comunicare agli interlocutori ai quali eravamo normalmente abituati che erano, principalmente, gli utenti ai quali si indirizzano i servizi della piattaforma, alle istituzioni che ne agevolano o ostacolano la diffusione, agli stakeholder vari, ma sempre di più è importante attivare una comunicazione rivolta agli sviluppatori di altre piattaforme o di altri business per fare in modo che l’approccio aperto della piattaforma stessa possa funzionare.

Un esempio per tutti in tal senso è Stripe. Il successo di questa piattaforma che agevola i pagamenti a livello globale per ogni tipo di business, dal più piccolo al più grande, si deve in parte alla sua facilità di integrazione a livello di codice.

Nel mondo delle piattaforme anche la concorrenza cambia i suoi connotati perché diventa meno importante della cooperazione e della co-creazione e il controllo delle relazioni diventa più importante del controllo delle risorse. In tal senso è anche difficile, talvolta, capire quali siano i reali concorrenti di una piattaforma perché non si trovano nello stesso settore, ma in settori diversi. Il successo della piattaforma si deve anche alla capacità di trattenere il pubblico presso di sé e diventare punto di accesso principale per le interazioni nel proprio ambito di interesse e quindi molto spesso la competizione tra piattaforme si gioca sulla capacità di competere sull’attenzione e sul tempo delle persone.

Il mercato delle piattaforme di comunicazione

In un report comparso due anni fa sul Future Market Insight si prevedeva che il mercato globale delle piattaforme di comunicazione cloud si espanderà a un ritmo elevato pronosticando per il periodo 2017-2027, una valutazione di mercato (per il mercato globale delle piattaforme di comunicazione cloud) di 12 miliardi di dollari entro la fine del 2027 da un valore di 1,4 miliardi di dollari nel 20171. Si prevede che la sua valutazione totale salirà in diverse regioni globali tra cui Medio Oriente e Africa, Europa orientale, Europa occidentale, Nord America e Sud America.

Per analizzare il mercato italiano vediamo quanto rilevato dal report di ottobre 2018 dell’Osservatorio Cloud Transformation del Politecnico di Milano. Le imprese italiane hanno ormai iniziato il percorso verso la nuvola e, anzi, lo hanno reso parte integrante della propria strategia IT, ritenendolo una soluzione preferenziale per la realizzazione di nuovi progetti (nel 25% dei casi), se non addirittura una scelta obbligata (6%) portando nel 2018 il mercato Cloud italiano a valere 2,34 Miliardi di Euro, in crescita del 19% rispetto al valore di consuntivo del 2017 (pari a 1,97 Miliardi).

Tra le piattaforme di comunicazione cloud private più amate a livello globale, secondo la classifica di Forbes del 2018, ci sono:

Stripepiattaforma di pagamenti$450 M
SlackPiattaforma di messaging$1260M
Zoom Video

Communications

piattaforma di communicazione video$146 M
TaniumSecurity and IT operations$600 M
Procore TechnologiesConstruction management$180 M
CrowdStrikeCybersecurity$481 M
QualtricsExperience management$400 M
SurveyMonkeyOnline surveys$1500 M

Le attuali piattaforme di comunicazione più usate sono i social network. Alcune delle più comuni nel mondo degli affari sono: Workplace di Facebook, Stride, Fuzz, Zoom, Slack e Bitrix24. Altre piattaforme di comunicazione adatte per le interazioni commerciali includono: Dropbox, Google drive, MailChimp, Sharepoint, Skype for business, Microsoft Office, Hubspot, Campaign monitor e Youtube.

Le app più utilizzate nel mondo

Nel panorama mondiale possiamo osservare che, nonostante la maggior parte delle piattaforme di social media sia presente in molti paesi diversi, ci sono app che sono peculiari di alcune nazioni. In Germania, per esempio, le app più popolari per la comunicazione sui social media sono: Facebook, Xing, Wer-kennt-wen, MeinVZ / StudyVZ, LinkedIn, MySpace e Lokalisten.

Nel Regno Unito si utilizzano app come WhatsApp ma si usa anche Messenger Lite, Discord, Yahoo Mail e Firefox Browser.

In Italia le app di social media di tendenza sono WhatsApp Messenger, Google Chrome, Messenger, Facebook, Samsung Internet Browser, analisi delle app Gmail, app Telegram, app Libero Mail, Viber Messenger, app di chat Imo e Yahoo Mail.

I più popolari in Francia sono Google Chrome, WhatsApp Messenger, Messenger, Facebook, Samsung Internet Browser, Gmail, Yahoo Mail, Discord (una piattaforma online per i giocatori).

Nei paesi asiatici come il Giappone, WhatsApp Messenger, Messenger Lite, Facebook, Discord , Yahoo Mail, Firefox Browser, Skype e Telegram sono i più preferiti in ordine di popolarità2. Una classifica sulle app mobile più utilizzata si trova sul sito di similarweb3.

Fenomeno “platform fatigue”

Di fronte a tutte questa proliferazione di piattaforme in ogni settore e in ogni Paese, emerge un problema di “platforms fatigue” dovuta a una serie di fattori che generano stress descritti molto bene nel libro Il benessere digitale di Marco Fasoli: la necessità di avere diverse competenze digitali per usare diverse piattaforme, un’overload di stimoli con sovraccarico informativo e comunicativo, la pressione sociale per la risposta istantanea e la reperibilità costante.

Ma anche il fatto che i social non permettono facilmente la distinzione di registri linguistici differenti perché in un unico luogo ci sono amici intimi e professionisti, la paura della mancanza di privacy. Sui temi della social fatigue e della Privacy è necessario aprire una parentesi perché la consapevolezza della presenza sempre più evidente di entrambi porterà a un ripensamento delle piattaforme.

Jonathan Rauch sul “The Atlantic” ha pubblicato, nel mese di agosto 2019, un articolo dal titolo Twitter Needs a Pause Button dove riportava come “la comunicazione istantanea può essere distruttiva. Per molto tempo, le prime generazioni che si sono affacciate sul web hanno considerato che la velocità fosse la cosa migliore, considerando la lentezza come un vestigio di un’epoca passata, un ostacolo tecnologico da superare. Hanno però dimenticato che spesso la lentezza è parte delle nostre istituzioni, dei nostri rapporti con le altre persone. La lentezza è una tecnologia sociale che protegge gli umani da se stessi”. Questa velocità inneggiata come baluardo della modernità comincia a dimostrare le prime falle.

Lezioni di “slow digital”

Ripropongo qui uno dei tanti articoli in cui si denuncia questa fatica, quello di Kyle Bessey su Journalism.co.uk5 in cui riporta testimonianze di come la dipendenza dei social da parte dei giornalisti abbia portato addirittura a problemi di natura mentale. Le cause sono diverse, dalla pressione sul proprio lavoro che nei social media avviene “in diretta”, ai commenti degli hater e le molestie, ma anche il meccanismo dello scroll incontrollato e la disinformazione i cui social sono un focolaio.

Un fenomeno che investe gli stessi lettori, dove la social fatigue assume le sembianze della cattiva informazione, come rileva in un’ampia analisi Michael Luo sul magazine “The New Yorker”: “L’esposizione al fiume online di informazioni incomplete, ridondanti e spesso contraddittorie che seguono invariabilmente un importante evento di notizie è controproducente e ci lascia meno informati”. Da qui la necessità di un nuovo patto tra lettori e giornalisti “per elaborare un nuovo modello d’informazione, ripensando profondamente ai modi con cui vengono offerte le notizie, creando un sistema che sia economicamente sostenibile, ma che al contempo sappia resistere alla pressioni del digitale, che esige velocità e quantità. E che i lettori stessi, una volta acquisita la consapevolezza di essere malinformati dall’attuale ‘cacofonia dei media’, sappiano cogliere un giornalismo che vada oltre il rumore”.

Media e piattaforme, patto da rifondare

La Rete come elemento su cui rifondare un legame tra media tradizionali e piattaforme social è anche al centro della visione ottimistica di John Wihbey che su Medium tratta della scienza della rete, l’interazione tra le tecnologie, la struttura della conoscenza sociale. In The Social Fact News and Knowledge in a Networked World John Wihbey affronta i modelli che caratterizzano il nostro mondo, fatto di informazioni sempre più connesse e fenomeni virali. Nella sua analisi sottolinea le modalità con cui i media tradizionali possano riconciliarsi con le piattaforme social, peer-to-peer, crowdsourcing e i contenuti generati dagli utenti. Il professore di Journalism and Media Innovation alla Northeastern University traccia una road map con la quale ridare nuova linfa al giornalismo, sostenendo la necessità di un approccio innovativo sia nella forma che nello scopo. Un nuovo “giornalismo socialeche, facendo leva sulla rete e le connessioni social, possa arrivare a coinvolgere e raggiungere nuove e diverse tipologie di lettori.

Il caso di Cambridge Analityca ha decisamente cambiato la percezione dei social nelle persone più attente. Le parole di Carole Cadwalladr, finalista al Premio Pulitzer grazie alla sua inchiesta giornalistica che ha svelato lo scandalo Cambridge Analytica, sono forti: “Ed è per questo che sono qui. Per rivolgermi a voi direttamente, dèi della Silicon Valley. Mark Zuckerberg, Sheryl Sandberg, Larry Page e Sergey Brin e Jack Dorsey, ma mi rivolgo anche ai vostri dipendenti e ai vostri investitori. Cento anni fa il più grande pericolo nelle miniere di carbone del sud del Galles era il gas. Silenzioso, mortale e invisibile. Per questo facevano entrare prima i canarini, per controllare l’aria. In questo esperimento globale e di massa che stiamo tutti vivendo con i social network, noi britannici siamo i canarini. Noi siamo la prova di quello che accade in una democrazia occidentale quando secoli di norme elettorali vengono spazzate via dalla tecnologia. La nostra democrazia è in crisi, le nostre leggi non funzionano più, e non sono io a dirlo, è un report del nostro Parlamento ad affermarlo. Questa tecnologia che avete inventato è meravigliosa. Ma ora è diventata la scena di un delitto. E voi ne avete le prove. E non basta ripetere che in futuro farete di più per proteggerci”.

Anche un articolo su “La Repubblica” firmato da Roger Mcnamee tocca il tema e riporta come negli anni Duemila gli imprenditori del web iniziarono a guadagnare rastrellando dati personali. “I pericoli per la privacy dei primi tempi (furti di identità e furti finanziari) sono stati sostituiti da un pericolo più grande, di cui poche persone erano consapevoli: modelli di impresa basati sulla sorveglianza e la manipolazione”. Secondo l’ex consulente di Facebook è arrivato il momento di “rivendicare la nostra privacy, la nostra libertà di fare scelte senza avere paura. I nostri dati sono là fuori, ma abbiamo il potere politico di impedire che vengano usati in modi inappropriati”.

I sistemi “anti-task switching

Oltre a questi “problemi” citati non si può tralasciare lo stress causato dalla necessità di dover passare da una piattaforma all’altra per colmare le informazioni o le esigenze mancanti, multitasking che in realtà è task switching come afferma Marco Fasoli. I leader di queste piattaforme ne sono consapevoli e per ovviare a questo le piattaforme migliorano costantemente il loro servizio.

Nascono anche nuovi modelli di business basati sull’offerta di sistemi in grado di semplificare l’utilizzo delle altre piattaforme come per esempio Plytix che è una piattaforma per piccole e medie aziende che facilita la gestione di altre piattaforme come Amazon, Stripe, Google nella gestione del proprio business a livello globale, oppure Social Publi che agevola la gestione della comunicazione tramite micro-influencer attraverso tutte le principali piattaforme di comunicazione, la nostra iPressLIVE che facilita la lettura di media e libri e attraverso essa la creazione di connessioni di valore con gli autori nei vari settori di interesse o, infine, Directopub che crea un nuovo canale di vendita facilitando la relazione diretta tra editori e inserzionisti pubblicitari per creare nuove forme di pubblicità moderna e non invasiva. Saranno sempre di più i sistemi che cercheranno di ridurre la “platform fatigue” per migliorare le interazioni umane riducendo e difficoltà di utilizzo e integrazione.

La centralità dell’elemento umano chiave per il futuro

La “quarta rivoluzione industriale” ci ha offerto possibilità mai viste ma emerge che, se vogliamo davvero migliorare la vita delle persone grazie al digitale, dobbiamo lavorare tutti insieme per ripulire il nostro amato Web, aiutare ad andare a fondo e non accontentarci di rimanere sulla superficie dei nostri social feed creando network di altissima qualità.

Siamo immersi in un mare di contenuti e notizie spesso negative che viralizzano di più e più velocemente di quelle positive. Alcune persino false. Anche le fake news viralizzano di più e più velocemente delle notizie vere e servono meccanismi sempre più sofisticati per rilevarle e bloccarne la diffusione. Francesco Paulo Marconi, Responsabile Innovazione del Wall Street Journal, ci conferma che quando una notizia ha un picco altissimo e molto veloce, è importante attivarsi immediatamente per verificarla, fare bene fact checking, per evitare di rilanciare una falsa informazione e bloccarne, nei limiti del possibile, la viralità.

Alla “platforms fatigue” si deve rispondere con azioni mirate sia da parte delle piattaforme stesse, dando l’opportunità di filtrare la mole di notizie che arriva all’utente, proteggendo il più possibile la privacy, evitando la dipendenza, offrendo contenuti e relazioni di valore, sia da parte dell’utente che deve mettere in campo azioni per limitare il tempo dedicato e preservare la propria privacy, sia da parte dei governi che devono regolamentarle valorizzandone il forte impatto sociale, limitandone lo strapotere informativo, le regole di accesso, soprattutto se globali, il loro prezzo, la privacy, la sicurezza dei dati, il controllo nazionale delle risorse informative, la politica fiscale e la regolamentazione del lavoro.

La grandissima disponibilità di dati resi disponibili suggerisce la possibilità di nuovi approcci normativi basati sulla trasparenza e sulla responsabilità per assicurare una equa gestione delle esternalità, evitare abusi di posizione dominante e l’utilizzo dei dati a scopi meramente commerciali.

Nel futuro non possiamo che immaginare una sempre maggiore diffusione di questi modelli che probabilmente avranno un impatto sempre maggiore nella vita delle persone e su settori come l’istruzione, l’assistenza sanitaria, l’energia e la finanza, in ambito sia privato sia pubblico. Questi nuovi modelli continueranno a trasformare i mercati del lavoro e dei servizi professionali e le politiche dei governi.

Inoltre, alla connessione di persone si aggiungerà sempre di più anche quella delle cose, grazie alla sempre maggiore diffusione dell’Internet of Things. Queste geometrie di dati saranno sempre più complesse, pervasive e per certi versi imprevedibili, consentendo all’uomo una potenza di analisi e di calcolo mai immaginata prima. Per questo motivo sarà fondamentale la centralità dell’elemento umano in tutta questa maggiore connessione tra dati, persone e cose.

La centralità dell’uomo deve essere una scelta individuale e collettiva per indirizzare tutta questa intelligenza umana e artificiale verso la soluzione dei grandi problemi dell’umanità e verso la costruzione di un mondo migliore in cui vivere tutti, uomini e macchine, agevolati e non ostacolati dall’evoluzione inarrestabile delle piattaforme.

(Dal libro “L’Italia che comunica in digitale”, edito da Bonanno Editore, realizzato dall’Osservatorio nazionale sulla Comunicazione Digitale)

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